L'anomalia italiana. Così il premier rottama del tutto l’idea di partito

La democrazia italiana, nelle sue molteplici stagioni, ha avuto il suo asse portante nei partiti. E anche nella ormai lunga fase della cosiddetta Seconda Repubblica la rappresentanza politica è passata attraverso formule personalistiche discutibili – i partiti personali – che però hanno avuto, comunque sia, la forma del partito o del movimento e, soprattutto, il battesimo del fuoco elettorale. L’idea-tentazione che sta prendendo quota in queste convulse giornate, tra Palazzo Chigi e altri ambienti di riferimento del premier, è, invece, quella di un’aggregazione parlamentare direttamente a sostegno di Giuseppe Conte.

Insomma, ci troviamo di fronte a qualcosa di inedito che va oggettivamente oltre gli stessi partiti personali e che pone più di un interrogativo: il gruppo parlamentare ispirato da Conte quanto avrebbe ancora a che fare con l’idea di una democrazia fondata sui partiti?

La domanda non appaia peregrina, perché i segnali quantomeno di un superamento (per non dire fastidio) dei partiti si sono moltiplicati durante l’esperienza di questo governo. Il massimo che il presidente del Consiglio ha concesso alla politica rappresentativa è stata la riunione dei capi-delegazione (che sono suoi ministri e dunque da lui coordinati): i vertici dei leader delle forze politiche di maggioranza sono stati praticamente azzerati o vissuti con evidente contrarietà.

Ma neanche con Silvio Berlusconi, un signore che ha vinto di suo più di un’elezione, si è arrivati mai a un tale livello di antipatia per lo strumento-chiave della democrazia rappresentativa. A quale altra logica, del resto, risponde l’idea della gestione piramidale del Recovery Plan (con il comitato ministeriale e la task force manageriale) se non a quella di sottrarla alla direzione strategica delle forze politiche di maggioranza?

Insomma, c’è una percepibile idiosincrasia dell’inquilino di Palazzo Chigi per i partiti come azionisti del governo che, se non facesse velo a tutto l’ostilità per Matteo Renzi, dovrebbe quantomeno preoccupare quei leader della sinistra pro-Conte (da Pierluigi Bersani a Massimo D’Alema), nati e cresciuti nelle sezioni. Perché, come scriveva Gaetano Salvemini di Giovanni Giolitti (e il premier non lo è) non c’era solo l’anti-giolittismo dei nemici personali di Giolitti o quello di coloro che volevano prendere il suo posto, ma anche quello di chi si sentiva moralmente e politicamente superiore alle pratiche e ai metodi del presidente del Consiglio dell’epoca.