STORIE / Le nozze di Antonietta – 6. Salire in cima

Leggi il capitolo precedente oppure Leggi dall’inizio Dopo essere caduto, continuavo a sanguinare dalla mano. Mi sedetti sul muretto del belvedere dal quale si vedeva lo Jonio. Avevo sentito qualcuno parlare, e non potevo averlo sognato. A questo pensavo, quando due occhi e due gambe spuntarono da dietro una casupola diroccata in lontananza, l’ultima della stradina […]

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Dopo essere caduto, continuavo a sanguinare dalla mano. Mi sedetti sul muretto del belvedere dal quale si vedeva lo Jonio. Avevo sentito qualcuno parlare, e non potevo averlo sognato.

A questo pensavo, quando due occhi e due gambe spuntarono da dietro una casupola diroccata in lontananza, l’ultima della stradina che un tempo – quando a Pentedattilo c’era ancora vita – doveva essere stato la strada principale del paese abbandonato. Sobbalzai a quella visione improvvisa, e per il rinculo quasi rischiai di finire nel dirupo. Era un ragazzo, e scoppiò a ridere mentre si avvicinava. “Stai calmo” disse ridendo mentre con lentezza continuava a scendere lungo il selciato, diretto verso di me. Poteva avere sedici anni, o forse neppure. Indossava un giubbotto di jeans molto anni Ottanta, e molto invernale, di quelli con la lana a batuffoli all’interno. Aveva un viso da bambino: era magro, non troppo alto, la barba inesistente, il portamento un po’ strascicato, l’aspetto lievemente dimesso. 

Mi raggiunse e fui io a parlare, stringendomi il palmo della mano: “Sono scivolato: non è che avresti un fazzoletto di carta?”. Lui mi indicò un pacchetto che evidentemente qualcuno, forse i turisti tedeschi di poco prima, aveva dimenticato sulla balaustra del belvedere. Poi seguitò a guardarmi in silenzio. Lo osservai anch’io, mentre tamponavo il sangue. Era chiaro di pelle, ma aveva i lineamenti tipici dei ragazzi di quelle parti: i capelli neri, la faccia spigolosa, gli occhi marrone scuro. Mi sentii in dovere di spiegare: “Volevo dare un’occhiata alla chiesa dall’interno, poi sono scivolato”. Lui parve illuminarsi:  “Ah, ma sei lo sposo forestiero? Quello di Pasqua?”.

Rimasi interdetto. Ero calabrese anch’io, conoscevo certe dinamiche di provincia, ma mi parve assurdo che in soli due giorni di nostra permanenza lì, tutti sapessero di mia sorella e della sua volontà di sposarsi a Pentedattilo nei giorni della Quaresima”. Dissi comunque di sì, specificai che però io ero solo il testimone della sposa e aggiunsi anche che non mi sembrava una cosa così pazzesca. “Non prendertela – disse lui – è normale che tutti ne parlino. Non è tanto che due forestieri abbiano deciso di venire a sposarsi qui, perché quello capita sempre più spesso, ormai. Ma è che vogliano farlo proprio a ridosso di Pasqua. Una cosa che qui da secoli non lo fa più nessuno”. Dissi che, se fosse stato per me, il problema di certo non si sarebbe posto. Era mia sorella a essersi impuntata per sposarsi lì, a Pasqua. E parroco, peraltro, stava facendo ostruzionismo.

Il ragazzo si mise a ridere. Parlava in italiano, senza mai cedere al dialetto.  Disse di chiamarsi Simone, e volle tranquillizzarmi:  “Don Mandredi è un uomo semplice, e crede nelle maledizioni. Nella sua reazione di sicuro avrà inciso il fatto che fin da piccoli, da queste parti, ascoltiamo la storia della strage di Pasqua e sentiamo le nonne dire che, prima o poi, la montagna finirà il lavoro”. Volevo rispondere a tono, magari con ironia, ma mi sentivo a disagio. 

Dissi soltanto che tra gli invitati non ci sarebbe stato nessun ex di mia sorella pronto a vendicarsi, e che i due in realtà si volevano sposare a Pentedattilo solo perché qui, qualche anno prima, in gita scolastica, si erano conosciuti ancora quindicenni. Il ragazzo poi si offrì da guida turistica. Insistette, già che ero lì, per condurmi ancora attorno alla rupe, a visitare il resto del paese abbandonato. Acconsentii, e proseguimmo il percorso lungo quell’asse principale del paese che continuava a inerpicarsi tra le case abbandonate.  Il ragazzo procedeva davanti a me, in silenzio. Poteva avere quattordici o quindici anni. Aveva una carnagione chiarissima, il corpo esile e dinoccolato, il naso aquilino, i capelli  lunghi fino a lambirgli le orecchie. Niente doppi tagli, rasature alla moda o gel, come avevo visto a moltissimi suoi coetanei del luogo. 

Si arrampicava in silenzio davanti a me, senza ansimare o sbuffare mai, e senza sudare, come invece stavo facendo io. Rispondeva alle mie domande con garbo, fermandosi e girandosi verso di me, e con un eloquio asciutto e una certa preparazione fatta di aneddoti rodati e battute sicure, come fanno le guide turistiche. Probabilmente aveva accompagnato spesso i turisti lungo il giro che ora stava facendo fare a me. “Lo faccio per divertimento, e perché la storia del mio paese  mi piace”, rispose quando gli chiesi cosa lo muoveva. E anche quella volta seppe prevenirmi: “Non voglio soldi – chiarì -. Io mi diverto”. 

Riprese poi la storia degli Alberti. Quella che conoscevo, ma molto più particolareggiata. Sembrava preparato. Della strage, ad esempio, raccontava tutto con molta più perizia, inserendo particolari di estremamente precisi, che essere frutto della sua fantasia. Quando gli chiesi se ci sono, oggi, discendenti di quei due casati, mi stupì con una risposta secca. “Le famiglie sterminate non generano discendenti”, disse in tono monocorde. Poi si fermò in silenzio, come in preghiera. Eravamo arrivati in cima.

6. Continua