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Avevamo raggiunto la cima dei ruderi di Pentedattilo. Il ragazzo sconosciuto che si era proposto ad accompagnarmi fin lì, se ne stette a guardare l’orizzonte in silenzio, poggiando un piede su un pezzo di muro. Io mi sistemai di fianco al suo piede, a rifiatare. Ero accaldato e in debito d’ossigeno. L’inverno da quelle parti non porta per nulla rispetto al suo nome, pensai, così presi a strapparmi il cappotto di dosso per cercare conforto in un po’ di brezza. Quel ragazzino invece restò fermo. Non era sudato né accaldato. Sembrava non essersi mai mosso, tant’era in ordine. E il suo giubbotto di jeans con la lana sembrava non gli desse alcun calore.

Distolsi lo sguardo da lui e lo posai sulla lunga valle sottostante. Alle nostre spalle un fiumiciattolo scorreva esangue su un letto troppo grande per la sua portata. “Sono le fiumare, tipiche della Calabria – mi anticipò il ragazzo -. In estate si seccano e in inverno, quando piove, diventano impetuose. Ma qui non piove neanche in inverno. Qui non piove mai. Le nonne di Pentedattilo dicono che le lacrime del cielo sono state tutte versate durante la strage degli Alberti”. Sbuffai ironico: “Quanta fantasia!” Il ragazzo si strinse nelle spalle: “Qui è così. Queste storie sono parte della nostra cultura”. Lo guardavo sempre più incuriosito. Non era un ragazzo di strada, nonostante l’aspetto. Parlava molto bene, di si curo doveva divertirsi più a leggere che a sfrecciare sui motorini. E doveva anche sentirsi abbastanza solo, se perdeva tempo a bighellonare tra i ruderi del paese deserto, mettendosi spontaneamente al seguito dei turisti sulle rovine del paese vecchio.

Dove avvenne di preciso la strage?” domandai, poi mi resi conto che la domanda poteva non avere risposta. Ma  il ragazzo seppe stupirmi ancora. Indicò un punto precisissimo. Un pezzo di muro eroso dal vento, dal quale si intravedeva una fessura. Quella era una finestra del piano nobile – disse -, lì c’era la camera del marchese Lorenzo. Lui fu ucciso nel sonno. A destra invece dormiva Antonietta, che fu rapita dagli scagnozzi del barone. Dove ci troviamo noi dormiva il piccolo di casa, Simone”. Stette un momento in silenzio, continuando a guardare dritto davanti a sé. Poi, sempre senza girarsi, continuò: “Questo castello non è stato distrutto da un terremoto, né da altre calamità naturali. Fu abbandonato dopo la strage, ma rimase intatto per secoli. Fu smontato poi nel tempo, pietra su pietra, dagli abitanti di Pentedattilo, che ne usarono i blocchi di granito per costruire le loro case. Gran parte di queste case portano perciò al loro interno, nelle fondamenta, un pezzo di sangue e di dolore di quella strage, ed è anche questa la ragione che  la vendetta deve ancora compiersi”.

Lo osservavo sempre più stranito. Non dissi nulla, la situazione era sempre più straniante. Mi limitai a osservare anche io l’orizzonte, con il sole ormai pronto a nascondersi dietro le ultime colline sullo sfondo, e un vento che adesso si faceva sentire. Suonando i tanti arbusti di quell’ammasso di pietre desolate in modo sempre più intenso. “Credi che faccia male, mia sorella, a sposarsi qui?”, mi sorpresi a chiedergli. Il ragazzo si limitò a tirare su un pezzo di labbro in una smorfia che doveva essere un sorrisetto. “Se fossi una vecchia magàra del luogo ti direi di sì, a Pasqua poi”. Poi si girò finalmente verso di me, e il sorriso si fece più pieno: “Ma come ti ho già detto racconto queste storie perché mi piacciono, non perché ci credo”. Il sole stava calando velocemente. Il vento ora era fastidioso. Mi rimisi il cappotto e mi alzai in piedi. Volevo fare capire a quel ragazzo che forse era il caso di tornare in basso.

“Senti questo lamento?” disse, invece lui. “Quale lamento?”, dissi un po’ a disagio. “Senti? Il vento. Quando soffia forte si sente anche da giù. Secondo la leggenda è un lamento. Un pianto, a essere precisi”. Avevo già sentito questa storia prima, giù al bar, dissi. “Ma i morti non piangono, fidati”. Dissi sornione, iniziando a muovermi. “I morti adulti no, ma i bambini sì –  rispose lui, e mi guardò -. Questo è il pianto del più piccolo degli Alberti, che fu ucciso nel sonno. Non era più che adolescente. Non c’entrava nulla, ma lo uccisero. La sua camera era proprio qui, dove ci troviamo ora. Dove hai il piede tu c’era il suo letto. Per questo Pentedattilo è un luogo intriso di sangue, che aspetta ancora vendetta”.

Ballai su un piede, il vento gridava più forte, e io non volevo stare più lì, con quel ragazzo. Ma da quel punto, così scosceso, non sapevo come scendere a valle. “Scendiamo”, proposi convinto. “Cos’hai, ti ho spaventato?” rise il ragazzo, alzandosi. “No, no, ma qui inizia a far buio, ad andar giù rischiamo di farci male”. “Io non mi faccio male – disse -. È un problema tuo. Poi mi superò e mi precedette nella discesa, sgusciando verso il basso con la velocità di un felino. Lo maledissi mentalmente. Non volevo dimostrarmi più vecchio di quanto ancora non fossi, ma davvero con il sole così basso e tutti quei massi c’era il rischio di lasciarci un braccio o una gamba. Lui però filava. Incasellava un movimento dopo l’altro, girandosi solo di rado per sincerarsi che ci fossi ancora.

Provai a rallentarlo parlandogli: “Ma è tanta la gente che vuole sposarsi qui?”. Il ragazzo lanciò una risata acuta, la prima da quando lo avevo incontrato. Risuonò stridula lungo le pareti delle case disabitate, e quasi mi gelò. Camminando a passo svelto in discesa, lungo la stradina del paese abbandonato, avevamo appena riguadagnato abbandonando il rudere del castello. “Perché ridi?” chiesi, ma il ragazzo ora filava senza più voltarsi. Si fermò soltanto a ridosso del belvedere dove l’avevo incontrato ormai qualche ora prima. Rideva in modo sciocco. “I matrimoni sono tanti – disse -, ma il vostro è l’unico che si tiene di nuovo a Pasqua, dal 1686 a oggi”. Il suo tono mi infastidiva. Era più puerile di prima. Così lo superai e imboccai la strada che porta in basso, e la cui luce fioca era l’unica testimonianza di vita nel buio incipiente. Volevo fargli capire che mi ero stancato, e che volevo proseguire fino al paese. Lui però rimase immobile a sogghignare quasi tra sé e sé.

“Ma perché ti sei fermato?”, sbottai. “E’ davvero una cosa così strana che…”. “I nomi, diamine! non lo capisci? – mi interruppe lui, non smettendola di ridere, con una voce che ormai da monotona come era stata fino a quel momento si era fatta acuta – I NOMI, SANTO DIO!” Non capivo. “Che nomi, ragazzo? Dai muoviti!”. Il sole era sparito del tutto, e di lampioni in quel posto abbandonato non ce n’era neanche a pagarne. Ma quello non voleva saperne. Mi avvicinai ancora. Almeno aveva smesso di ridere. Mi guardava negli occhi, però, come non aveva quasi mai fatto fino a quel momento. “Cos’è sta storia dei nomi, non capisco”, dissi a voce più bassa. “Antonietta – disse lui -, così si chiama tua sorella, no? Antonietta come l’Alberti. Che sposa un Pietro, come don Petrillo Cortez. E succede a Pasqua, ora come allora. E’ un segno, e non può essere una coincidenza”. “Ma tu come sai i loro nomi?”, chiesi nervoso. Il sole era ormai basso, e intuivo una profonda sensazione di pericolo. Alzai la voce: “Com’è che qui tutto sapete i cazzi di tutti? Possibile che un prete in due soli giorni abbia informato tutto il paese su ‘sto maledetto matr”

Una sua nuova risata, molto più forte e stridula delle precedenti, che mi interruppe di colpo: “Un Pedro di Napoli torna qui a Pentedattilo, su queste pietre, a sposare un’Antonietta di Calabria. E’ un affronto. Potrà mai restare impunito?”. Adesso rideva. “E nel periodo di Quaresima. Proprio in quella chiesa, guarda! Quella chiesa dove ha avuto inizio il male! Per questo pagherete, io te lo prometto”. “Sei solo un ragazzino mezzo pazzo”, urlai io dislessico. “E ora accompagnami in paese”. D’un tratto mi sentitvo esausto. Misi la mano alla testa. Chiusi gli occhi, sospirai: “Oh, non si vede quasi più, ma io me ne sbatto di te, piccolo pazzo. Scenderò da solo, e tu, tu… Ehi?”. Ma ormai il sole era calato del tutto, e il ragazzo era sparito nel buio incipiente.

7. Continua