Don Manfredi, parroco della parrocchia di Santa Anastasia a Melito di Porto Salvo, aprì il vecchio armadio a muro della sacrestia per riporre il suo abito talare. Fece tutto con eccessiva cura: scelse una gruccia libera, ci sistemò l’indumento, poi ci passò una mano sopra più volte, come a stirare delle grinze inesistenti. Quindi con voce piana ed esausta, e senza più guardare mia sorella, ripeté: “Fate pure. Ma io non vi sposo”.

Io abbassai la testa, vinto. Erano ore che stavamo in quella dannata chiesa, e a quell’epilogo avevo già assistito almeno una dozzina di volte. “Non-vi-sposo”. La relatività del tempo permise ancora una volta a quelle semplici parole di viaggiare a lungo a mezz’aria, nello spazio della chiesa. Le vibrazioni superarono la sempiterna statua di san Francesco di Paola, col suo bastone e il suo barbone, gli occhi rivolti al cielo, forse stanco anche lui. Generarono poi una leggera eco, tipica delle chiese, e lambirono le scale dell’altare, i primi scranni, la statua della Madonna, quella di Giuseppe, il vecchio leggio in legno e, più in là, l’effigie in plastica dell’ultimo arrivato, San Pio. Ma non durò che qualche frazione di secondo, perche subito mia sorella lanciò un urlo contro il prete e tornò a fulminare, saettare, imprecare.

“Sei in casa di Dio, benedetta ragazza!”, si lamentava a bassa voce don Manfredi. Ma lei continuava imperterrita: ancora infamie, recriminazioni, disprezzo, delusione. Alzai gli occhi al soffitto anch’io come Francesco di Paola: eravamo entrati in quella chiesa alle 9 del mattino per discutere del matrimonio di mia sorella; adesso era l’una passata, e non avevamo ancora un accordo. Di mezzo c’erano state tre messe desolate, da aficionados– alle 7, alle 10 e alle 12 -, una sessione di confessioni e una lunga telefonata di don Manfredi con il comitato per l’organizzazione della festa dell’Immacolata Concezione, patrono del paese. L’evento sarebbe stato solo l’8 dicembre, ed eravamo in febbraio, “ma le cose vanno fatte per tempo – si era giustificato don Manfredi -, e se vogliamo che venga Pupo dobbiamo raccogliere i soldi entro l’estate”. Quasi un assist per mia sorella, che recriminò al padre di stare buttando i 500 euro che lei e mio cognato avrebbero donato se gli avesse concesso per il loro matrimonio quella vecchia chiesetta di Pentedattilo, nella settimana antecedente a Pasqua.

Da quell’orecchio, però, il prelato si rifiutava di sentire: “Ci sono tante chiese in paese – ripeteva afono – e perché mai ti sei fissata a riaprire, proprio in Quaresima, quella di un posto abbandonato da anni?”. E io, poi, cosa diamine c’entravo? Ero il testimone prescelto, in quanto fratello maggiore, per le nozze di Antonietta, terza ed ultima delle mie sorelle. Così per lei da due mesi, ormai, bruciavo permessi a lavoro, pause pranzo coi colleghi, sabati con la mia ragazza e giorni di ferie per scarrozzarla qui e là tra orafi, tipografie, catering, vecchie ville in affitto e, per appunto, chiese. Anzi: chiesa. Una. L’unica. La prescelta, insostituibile. Pentedattilo, sulla punta più estrema della Calabria, a tre ore e venti di curve da casa, tre quarti d’ora da Reggio e dallo Stretto e altrettanti da Capo Spartivento, dove una linea chiara sull’acqua azzurrissima separa ogni giorno lo Jonio dei greci dal Mediterraneo dei nuovi migranti. Pentedattilo: un borgo maledetto, racconta la storia, e proprio per un matrimonio a Pasqua.

(continua)

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