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Uscimmo dalla canonica di don Manfredi che il sole iniziava a scolorire in un lungo crepuscolo infinito. Erano soltanto le quattro, ma mi sentivo spossato come dopo una lunga giornata di lavoro. Così avevo salutato mia sorella e Pietro con una scusa (“Devo fare un po’ di telefonate, ci vediamo in serata”), per fare due passi in solitudine. Cercavo silenzio, e così sceso dalla macchina di Pietro snobbai l’Air Bnb e il sobborgo abitato per puntare dritto verso le rovine del paese abbandonato.

Il panorama era splendido. La palla infuocata del sole si apprestava a tramontare dietro le colline a sinistra, donando riflessi dorati al mare che si intravedeva sullo sfondo. Pentedattilo, il vecchio paese abbandonato e maledetto, era già nell’ombra. “Oggi solo due turisti, due tedeschi”, mi disse il ragazzo che mi servì una birra piccola alla spina e un panino con provola e schiacciata piccante giù al ‘Chiosco’, unico avamposto di vita prima della solitudine del paese diroccato.

“Siamo in bassa stagione. Non ne vediamo assai di turisti fino ad aprile”, disse con il suo accento duro come la roccia di quei luoghi. “E ad aprile?” Chiesi io. Il ragazzo spinse la mano indietro, a indicare abbondanza: “L’estate qua è un via vai, tra sposalizi, truppe televisive e pullman di stranieri”. “Sposalizi?” Ripetei, confortato dal fatto che non fosse la sola, mia sorella Antonietta, a essersi fissata con le nozze in quel luogo dimenticato da dio. “Uh! Quanti ne vuole! In estate è tutto uno sposalizio, qua. Ma solo l’estate. A Pasqua no, porta male”, e mi raccontò: “Invece mo, ‘u ‘sa? C’è una che da una settimana va facendo i diavoli a quattro col prete per sposarsi qua proprio a Pasqua” e rise beffardo. Ovviamente non sapeva di stare parlando proprio di mia sorella Antonietta, e del mio futuro cognato Pietro.

“Ma la gente che viene qua lo sa, o no? – continuò lui, facendosi serio – che qui c’è stata una strage a Pasqua, nel 1600, proprio per uno sposalizio”. Poi dopo una pausa studiata, da guida turistica navigata, avviò il racconto: “Il giorno di Pasqua donna ‘Ntonetta Alberti sposò a un notabile di Napoli, don Pedro, ma quella notte ‘u barune Abenavoli, che voleva a ‘Ntonetta, entrò dentro il castello lì, u vì, quel castello là che mo’ è tutto rovine, e ammazzò tutti. Non si salvò manco u picciotteddru, Simoni”, disse con voce baritona.

Poi di colpo, e facendomi sobbalzare, mi invitò poi a fare silenzio, ponendosi l’indice in verticale sulle labbra. “Sentite”. Ascoltai, lievemente scocciato. Non sentivo nulla: solo il vento in lontanza. Ma il cameriere si riferiva proprio a quello: “Non è vento – disse grave -. Questo è il lamento d’u picciottu Simoni”.  Rimasi ad ascoltare quell’ululato. Lui aspettò un poco, poi mise a ridere: “Ma non vi voli fare paura – disse -. Mangiatevi ‘u panino, ca già friddu è”. E prima di sparire in cucina, si voltò di nuovo, scostando la tenda: “Solo leggende, sono”.

(4. Continua)