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Dal chiosco dove avevo mangiato, solo e all’imbrunire, osservavo Pentedattilo, quel borgo misterioso e spettrale, con un misto di divertimento e noia. Né mia sorella Antonietta né il suo futuro sposo Pietro per quel pomeriggio si erano più fatti sentire, e ci mancherebbe: stavo pagando le pene dell’inferno solo per quella stupida testardaggine di mia sorella a volersi sposare a tutti i costi in un luogo abbandonato! Attorno a me non c’era anima viva. Le poche case incontrate lungo il percorso sembravano sbarrate e disabitate. Forse luoghi di villeggiatura, o semplicemente posti rimessi a nuovo nella speranza di farne bed&breakfast. Il silenzio regnava sovrano, eccezion fatta per il sibilo del vento – che per gli abitanti del luogo, lo avevo appena scoperto, richiamava al lamento di Simone, il più giovane delle vittime della strage di Pasqua – e per il rimbombo lontanissimo di qualche auto che risaliva i tornanti più a valle.

Il ragazzo che mi aveva servito al bar, potevo vederlo, mi osservava annoiato dal tavolo della cucina, e nel frattempo giocava con il suo cellulare. Perché stava aperto, un posto del genere? Nella speranza che una fugace coppia di turisti tedeschi o un pazzo solitario come me si fermassero a bere qualcosa prima di risalire la collina a forma di mano dove sorge del borgo abbandonato? No, troppo poco. Magari, chi lo sa, qualche comitiva locale di tanto in tanto spingeva fino a lì a bere una birra, a mangiare una pizza al sabato sera, guardando la Champions. Su gente come me, mugugnavo, di per certo non avrebbero potuto fare affidamento: se non fosse stato per mia sorella, probabilmente mai mi avrebbero visto arrivare fin lì, così a sud, a osservare vecchi ruderi e maledire quei luoghi più di quanto già non fossero maledetti.

Pensavo a come uscire dall’impasse del matrimonio che, in quel luogo, a quanto pare, non si aveva proprio da fare. E forse fu proprio quell’inedia a scuotermi, perché all’improvviso mi venne voglia di muovermi su per quelle rovine. Così pagai e, poiché a occhio rimanevano ancora un paio d’ore di luce, mi avventurai verso Pentedattilo. Affascinante, quel posto lo era di sicuro. Superato il bar, la stradina che si inerpicava verso le prime case abbandonate era in cemento. A sinistra, solo una balaustra di ferro arrugginito separavano il viandante dal burrone. A destra il muro di rocce lasciava spazio agli arbusti, a un traliccio di corrente e a qualche spartana pianta di fichi d’india. Immaginavo l’impossibilità di andare a raccogliere, quando era stagione, quei deliziosi frutti spinosi, rossi, gialli, verdi, quando vidi a bordo strada una freccia di legno, intagliata a mano, che recava l’indicazione per la chiesa dei Santissimi Pietro e Paolo. Proseguii. Il primo stabile incontrato era una casupola rossiccia, sbarrata come le altre, sormontata da un garage dalla porta di rosso vivo, e da inferriate arrugginite davanti alle finestre. Superato lo stabile, la stradina si biforcava. A sinistra una mulattiera in terriccio e pietre che portava fino a un grumo di case subito sotto al paese, a destra la via maestra, se così si può dire, che invece seguitava a salire, arrampicandosi lungo il costone che portava fino ai piedi delle gigantesche dita di roccia. Vista da lì, la montagna di Pentedattilo, un po’ spettrale lo era. Un grosso sasso in bilico, vecchio di millenni, bucherellato di grotte e cavità, e parzialmente ricoperto di peluria verde: arbusti, parietarie e coraggiosi steli di graminacea.

La pietra era l’elemento imperante. Pietra vecchia, cadente, sfarinata, sostituita a macchia di leopardo dai tanti interventi degli ultimi anni, alcuni arroganti e contemporanei, altri più rispettosi del tempo che da quelle parti di per certo si era cristallizzato. Si procedeva così, per contrasti, finché a un certo punto, dopo molti tornanti e una strada sempre più stretta e in salita, anche il cemento della strada aveva rinunciato a proseguire. Da lì gli intonaci lentamente digradavano, lasciando il passo alle case originarie i cui ultimi interventi – colonnine di corrente, porte in ferro dei magazzini, tetti di ondulato in vetroresina – sembravano chiaramente ricondurre agli anni ’70, ultimo strenuo tentativo di tenere quella landa avvinghiata a una modernità che da lì non sarebbe più passata. Le auto arrivavano solo fino a quel punto. Lo scoprii sobbalzando, perché a un certo punto ne vidi una, una vecchia Twingo, parcheggiata in uno slargo, prima che la strada improvvisamente non cambiasse direzione, in un tornante a ridosso degli antichi palazzi ai cui pianoterra facevano bella mostra dei negozi di artigianato e souvenir (chiusi), che anticipavano il punto centrale del borgo. Lì il silenzio si era fatto totale.

Io proseguivo seguendo il percorso obbligato, e la punta di un campanile dietro alle case, che immaginavo potesse essere la chiesa. La raggiunsi pochi minuti dopo, ansimando. Provai a spingere il portone, ma evidentemente era sprangato dall’interno. Rimasi allora fermo a osservare quella strana chiesa. A destra un grazioso belvedere che dava sullo strapiombo, mentre a sinistra la costruzione era vicina in modo impressionante a uno spuntone di roccia: lo costeggiava lasciando spazio a fatica per il passaggio di una persona. Lì nell’anfratto, a terra, faceva bella mostra un corollario di rifiuti scoloriti, tra pacchetti di sigarette e vecchie buste di patatine, omaggio del vento o di qualche recente turista. Mi ci addentrai, titubante. Cercavo un appiglio per arrampicarmi sulla parete di roccia e sbirciare l’interno della chiesa da una delle finestre. Ci provai pure, visto che più o meno a metà del percorso, proprio all’altezza di una delle finestre più basse, un tubo dell’acqua correva ad altezza d’uomo. Lo testai, sembrava sufficientemente robusto per sostenere il mio peso, così lo afferrai con due mani e provai a usarlo da leva per spingermi in alto, puntando i piedi sulla roccia. Prima un piede, poi un altro. Con un piccolo sforzo sarei riuscito a ergermi sul tubo, e a quel punto con gli occhi sarei stato all’altezza della finestra, alle cui inferriate avrei potuto tenermi per sbirciare all’interno.

Ma diedi l’ultima spinta e la roccia franò sotto alla mia suola. Mi ritrovai a terra, immerso in una nuvola di polvere. Imprecai sommessamente. Mi ero sbucciato il palmo di una mano. Nulla di che, ma un pezzo di pelle mancava, e al suo posto una noce di sangue si ingrossava a vista d’occhio iniziando a rigarmi il polso. Cercai inutilmente con l’altra mano un fazzoletto in tasca, uno scontrino, qualunque cosa, ma non ci riuscivo, e così mi contorcevo continuando a imprecare, finché qualcuno parlò. “Oh-è!”. Un solo monosillabo, proveniente dall’altro lato della chiesa. Poi un altro: “Oh-è!”, e rumore di passi sul selciato. “C’è qualcuno?” Dissi, raggiungendo la strada. Nessuno. Né a destra né a sinistra.

5. Continua