Venerdì 26 Aprile 2024

Red Hot cinquantenni Peppers. "Per sempre rock, ma che fatica"

Kiedis: "Il tour è così: esaltante e stancante. Oggi siamo più positivi"

Anthony Kiedis  e il bassista Flea (Ansa)

Anthony Kiedis e il bassista Flea (Ansa)

Bologna, 10 ottobre 2016 - IL CALO è arrivato – prevedibile, previsto e forse inevitabile – nel sottofinale di “Suck my kiss” e “Soul to squeeze”. Ma per il resto la rentrée italiana dei Red Hot Chili Peppers, l’altra sera a Casalecchio, è stata adrenalina pura. Dopo 33 anni di palcoscenico, difficile pretendere di più. Mentre nella polverosa Valle di Coachella, in California, infatti, un manipolo di leggende ultra settantenni che non vogliono mollare il colpo – Stones, Dylan, McCartney, Who, Waters, Young – davano vita al più roboante mega raduno degli ultimi anni, a quasi diecimila chilometri di distanza i Peppers approdavano all’Unipol Arena, fra i 14 mila pure Cesare Cremonini e Valentino Rossi, per la 46a replica di un tour di 120 date che li terrà in circolazione fino alla prossima estate.       MENO provocatori di quando andavano in scena nudi, con un calzino infilato proprio lì a coprire il copribile, ma non per questo arresi all’avanzare dell’età. Come i Foo Fighters, Pearl Jam e tutti gli altri che l’anagrafe ha spinto ben oltre il mezzo secolo. «È dura. Le tournée sono esaltanti, ma anche molto stancanti. Per me era così anche quando avevo vent’anni, figuriamoci adesso. La differenza è che oggi provo una stanchezza positiva, accompagnata da un forte senso di realizzazione» confessa Anthony Kiedis nei camerini. E invece (e nonostante il mal di gola) sulla scena se l’è cavata meglio che in tante altre occasioni, assecondando la forza tellurica del basso di Flea combinato alla ritmica di Chad Smith.       «FLEA fai ballare il mio sedere» esortava il cartello di una ragazza schiacciata sotto al palco e lui non s’è fatto corteggiare più di tanto per lanciarsi in assoli con quel suo bruciante «slap» in bilico tra jazz, funk e punk hardcore in session coi compagni arrovellate dalla carica selvaggia di quando erano tutti più giovani (e drogati). Eccetto il trentaseienne Josh Klinghoffer, naturalmente, sulla cui chitarra grava l’eredità dei vari Dave Navarro o John Frusciante. «Conosco l’esistenza del libro di Brizzi, ma non l’ho letto» confida Kiedis, cinquantatrè anni. «Frusciante è uscito dal gruppo due volte. La prima volta c’è dispiaciuto, la seconda no, viveva ormai male il logorio di questo lavoro e non avrebbe avuto senso obbligarlo a restare». 

Soddisfatto della reazione dei fan al nuovo album “The Getaway”? 

«Trovo eccitante scoprire che dopo così tanto tempo c’è in giro ancora tanta gente che ci porta nel cuore e s’interessa a noi».

Alcuni hanno ravvisato una vostra virata verso il pop. Dove state andando? 

«L’evoluzione del suono di una band in parte è cosciente e in parte no. Non credo che sia possibile scegliere una direzione, ma solo assorbire gli stimoli che ci sono attorno e rielaborarli a modo nostro. Anche dopo tutti questi anni l’importante è metterci passione. E quella a noi non è mai mancata». 

Ma come fa un musicista di lungo corso come lei ad avere ancora l’orecchio puntato sulle ultimissime novità? 

«Mio nipote Jackson Diego ha vent’anni e canta in un gruppo chiamato Afterglow. Da quando ha perso il padre vive a casa mia e mi capita di assorbire quello che ascolta. è il mio dee jay».

In questo weekend al Desert Trip Festival di Coachella, in California, s’è ritrovato il gotha del rock anni Sessanta-Settanta. Le piacerebbe partecipare a un’edizione focalizzata sugli anni Ottanta? 

«Preferisco i festival tradizionali, che sono frequentati da ragazzi mediamente più giovani del pubblico di certi mega eventi. Non ci riteniamo abbastanza qualificati per un cast del genere».

I biglietti di questi tre concerti (oggi e domani si replica a Torino) sono stati presi d’assalto da 38 mila persone. Com’è cresciuto il vostro rapporto con l’Italia? 

«Ci avete scoperto ai tempi di “Blood Sugar Sex Magik”e e il legame non s’è mai allentato. Ricordo che il giorno della pubblicazione di “Californication” ci trovavamo a Milano e per strada c’erano un sacco di ragazzi con in mano il nostro disco che ci chiedevano l’autografo. Prima di allora, giù dal palco, non mi era mai capitato di avvertire così forte il legame con la gente».