Giovedì 25 Aprile 2024

I vip, eroi dell'effimero. "Ma il gossip è utile"

La lezione di Bauman al Festival della filosofia

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman (Ansa)

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman (Ansa)

Modena, 14 settembre 2014 - SE NON ci fossero le celebrità, bisognerebbe inventarle. In questa società liquida, «le celebrità sono perfette per creare dei legami, sia pure temporanei, fra le persone», assicura il celebre sociologo Zygmunt Bauman, a 89 anni vera star del “Festival Filosofia”. Insomma, mettersi a chiacchierare di Lady Gaga o di Alessia Marcuzzi è un modo per ricostituire quel senso di comunità che il mondo contemporaneo ha reso più fragile. E noi che pensavamo che fosse soltanto gossip...

Professor Bauman, non esiste più la gloria? È solo celebrità?  "C’è un elemento in comune fra gloria e celebrità: la fama. Ma la fama delle persone “gloriose” è il risultato dei loro successi e del loro contributo all’esistenza di noi tutti, quasi un modo per gettare i fondamenti dell’immortalità, mentre la fama delle celebrità è invece legata al consumo immediato, quasi come il caffè istantaneo".

E allora perché sono considerate importanti?  "Si dice che le celebrità siano “persone conosciute per essere conosciute”. Non importa il motivo, ma importa che molta gente parli di loro, le veda sui giornali, in tv o su internet. Le celebrità vanno e vengono, certo, sono rimpiazzate velocemente ma sono utili, e credo che sia corretto definirle degli eroi del contemporaneo".

Per quale motivo?  "Ci forniscono una buona quantità del tessuto quotidiano delle nostre relazioni, ci danno spunti di conversazione anche con gli sconosciuti. Ci offrono costantemente dei link fra la nostra vita privata, i nostri problemi e pensieri, e la sfera pubblica. Sono i legami sostitutivi fra le persone in una società in cui le relazioni quotidiane diventano transeunti".

Non era così anche in passato?  "Le persone gloriose del passato erano staccate dalla vita quotidiana. Del resto questo processo rispecchia la trasformazione della società, dove si è passati dalla comunità al network, la rete. La comunità era solida, pesante e autodifensiva: chi vi apparteneva aderiva a una sorta di voto di lealtà, e la comunità poteva decidere il modo giusto di comportarsi, di pensare o di vivere. Uscirne era considerato un tradimento".

E la rete, invece?  "È la manifestazione di un corpo sociale fluido, dove coesistono la possibilità di connettersi e disconnettersi molto semplicemente. Si guadagna libertà, si perde il senso di sicurezza. E allora servono punti di riferimento...".

E sono loro, le celebrità?  "Soddisfano questo bisogno. Noi siamo tutti dei “loners”, dei solitari, anche se con gli strumenti informatici siamo sempre in contatto: siamo ritenuti responsabili per le nostre scelte, ci sentiamo obbligati all’arte della vita. Amiamo le celebrità anche per i loro errori o per le loro sconfitte, i divorzi, i tradimenti, i peccati: in fondo, ci illudiamo che ciò che loro fanno si possa applicare anche alla nostra arte della vita. E possiamo farlo insieme agli altri".

In che senso?  "Non celebriamo mai le celebrità da soli, ma sempre all’interno della folla, come quando andiamo a un concerto. E quindi nella folla possiamo dimenticare per un momento le nostre responsabilità individuali e la possibilità dell’errore. Anche se hai fatto qualcosa di sbagliato, non eri solo a farlo".

Professore, anche lei è una celebrità... "Certe volte mi sembra di esserlo, quando vedo persone che mi riconoscono perché magari hanno visto una mia foto sul giornale. Ma per fortuna io non sono una vera celebrità: anche perché le persone che mi salutano sono più di quante hanno letto i miei libri".