Sabato 27 Aprile 2024

Attentato Monaco di Baviera, il killer e quel libro sulle stragi nei licei

Nella camera del killer uno studio sugli omicidi di massa negli Usa. L'autore: "Cercava un modello"

Poliziotti davanti al luogo della strage a Monaco di Baviera

Poliziotti davanti al luogo della strage a Monaco di Baviera

Roma, 24 luglio 2016 - «Non so perché Ali Sonboly abbia comprato il mio libro. Forse cercava un modello a cui ispirarsi». Lo psicologo americano Peter Langman è l’autore di “Perché i ragazzi uccidono”, il volume ritrovato a casa del killer di Monaco.

Cosa cercava tra le pagine?

«Non lo so davvero. La mia intenzione, nello scrivere il libro, era quello di aiutare a prevenire questo tipo di attacchi. Si tratta di uno studio che cerca di capire cosa fa scattare la molla della violenza e quali sono i segnali che possono aiutarci a capire chi potrebbe diventare un ‘mass shooter’, uno che spara sulla folla».

Forse Sonboly, che era in cura presso uno specialista, era alla caccia di trucchi per non farsi individuare?

«Non penso, non ho incentrato il libro sugli attacchi, ma sulle vite dei killer e i loro problemi. Non so davvero se stesse leggendo il libro per capire meglio se stesso e farsi aiutare o se invece fosse alla ricerca di ispirazione: molti sparatori di massa cercano qualcuno da imitare».

Il killer è stato vittima di bullismo. Potrebbe essere stata questa la molla del massacro?

«È possibile, ma solitamente essere i bersagli dei compagni di classe non è mai l’unica ragione. Specialmente, come in questo caso, se non si cerca di uccidere quelli che a torto o ragione si ritengono i propri carnefici».

Quindi il bullismo non c’entra?

«Se avesse voluto vendicarsi, avrebbe cercato di colpire i suoi bersagli dove sapeva di poterli trovare e non avrebbe organizzato un attacco in un centro commerciale, dove sicuramente non c’era nessuno dei suoi ‘aguzzini’».

Il killer di Monaco era depresso. È una caratteristica comune tra gli sparatori di massa?

«Sì, molti lo sono. Almeno la metà di loro, secondo i miei studi, si uccide al termine della mattanza. Sono pieni di rabbia e vogliono vendicarsi. Sono arrabbiati con la società in generale e vogliono sfogare tutta la loro furia prima di andarsene».

Sonboly era ossessionato da Anders Behring Breivik, l’assassino norvegese di Utoya, e Tim Kretschmer, un ragazzo tedesco di 17 anni che uccise 15 persone all’interno della sua scuola. Cosa lo affascinava?

«Ci sono persone che si sentono insignificanti, pensano che nessuno li reputi importanti. Poi si accorgono che chi commette stragi di massa diventa subito famoso a livello globale. Per alcuni di questi ragazzi uccidere diventa un modo per acquisire popolarità. Forse, come ho già detto, cercava dei modelli».

Cosa si può fare per evitare questo tipo di attacchi?

«Le persone devono capire quali sono i segnali d’allarme e imparare a comunicarli alle persone giuste. Perché chi compie queste stragi lascia sempre molti indizi. Spesso non vengono individuati finché non avviene il massacro. Poi chi era in contatto con il killer comincia a guardarsi indietro e si domanda: “Come ho fatto a non accorgermene?”. Si ripensa alle cose che l’assassino ha detto o scritto sul web e nei compiti in classe».

In effetti in una chat con un suo compagno di classe Sonboly aveva giurato di uccidere i bulli che gli davano fastidio. Perché questo segnale non è stato colto?

«Spesso le persone dicono cose che in realtà poi non fanno. Inoltre è difficile pensare che qualcuno che si conosce bene, che si considera un amico, possa compiere un massacro. Spesso si pensa che sia molto arrabbiato e che si stia lamentando in un modo colorito della situazione. A volte, invece, si ha paura di farsi avanti perché si teme di mettere nei guai il proprio amico o di finire nel suo mirino».

Il killer era in cura per depressione. Come ha fatto il suo terapista a non accorgersi di quello che poteva succedere?

«Non è detto che Sonboly gli abbia rivelato le proprie intenzioni. Forse proprio perché aveva paura di farsi scoprire».