Venerdì 26 Aprile 2024

"Le mie medaglie sono una risposta ai bulli"

Abraham Conyedo, bronzo a Tokyo nella lotta libera: "Ho dovuto combattere fin da piccolo, l’Italia mi ha adottato. Ma c’è razzismo"

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di Doriano Rabotti

Dietro quella medaglia d’argento ci sono le botte di tutta una vita. Alla fine gli avversari sul tappeto di gara sono quasi dei complici, per uno che ha iniziato a combattere per strada quando era bambino. E che ha dovuto battere prima i bulli.

Abraham Conyedo, bronzo a Tokyo nella lotta libera. È un punto di partenza o di arrivo?

"È una cosa che stavo aspettando per concretizzare la mia carriera, ma ovviamente non ho intenzione di fermarmi qui. Anche perché adesso mi sento più sicuro quando salgo sul tappeto, vedere che il sacrificio dà i suoi frutti ti fa capire che hai trovato la strada giusta".

E’ cambiato qualcosa dopo?

"E’ il risultato più alto che un atleta possa raggiungere, dopo gli altri ti guardano con maggiore rispetto".

E’ vero che da bambino finiva sempre per fare a botte?

"Quando ero piccolo, a Cuba, non funzionava neanche il telefono e il passatempo dei più grandi era picchiare i più piccoli. Ero bullizzato, quindi ho dovuto imparare a difendermi".

Difficile immaginarlo adesso che è un gigante.

"Sono cresciuto fisicamente fino ai 24 anni. Chi lottava con me quando avevo 13 anni è rimasto sugli 80 chili, io ora ne peso 115...Ma allora avevo una struttura corporea normale, quindi ho sempre dovuto combattere per difendermi. Non accettavo di prenderle, reagivo e quindi picchiavano ancora più forte".

Lo sport l’ha aiutata ad uscirne?

"Ho iniziato a farlo per diventare più grosso e riuscire a rispondere a quelli più grandi di me. Ho fatto anche pugilato, alla lunga sono stati gli altri ad avere paura di me".

Dicono che fosse anche una promessa del baseball.

"A 12 anni facevo lotta libera, uscivo dalla palestra e andavo a giocare a baseball, ero bravo. Poi a 14 anni vinsi l’argento in una gara di lotta, mi chiamarono in nazionale e decisi di scegliere le pedane, anche perché avevo molta passione. Combattere mi piace".

Molti cubani hanno praticato sport diversi, prima di scegliere quello definitivo. La varietà aiuta quando si sceglie una disciplina molto specifica?

"A Cuba c’è una scuola sportiva con tutti gli sport estivi, poi in base alla crescita ti spingono verso una disciplina o l’altra, se sei alto vai a fare pallavolo. La cosa importante è che fare sport fin da bambini aiuta a sviluppare il fisico, ma soprattutto la mentalità che ti porta a voler vincere e lottare sempre".

E questo torna utile in pedana.

"Se non esco da un allenamento con un labbro rotto, come minimo, vuol dire che non ho fatto un buon lavoro. Ma io volevo vincere in qualsiasi sport, perdere non è un’opzione. Poi è chiaro che la differenza la fa la passione che ci metti".

Come è arrivata la chiamata dall’Italia?

"Grazie a un infortunio e a facebook".

Prego?

"Volevo andare ai Giochi di Rio con la nazionale cubana, mi stavo giocando il pass con un altro atleta. Ero in vantaggio, avevo vinto più di lui, ma due mesi prima delle Olimpiadi mi sono rotto legamento crociato e menisco, sette mesi di stop. Quando ho ricominciato i dottori dissero che non avrei mai recuperato abbastanza per poter tornare alle gare. Era la seconda volta in vita mia che mi dicevano che non avrei potuto fare una cosa".

La prima?

"Quando ero bambino, sono nato con un grosso problema ai piedi, facevo fatica anche a camminare. Dissero che non avrei mai potuto fare sport. Io me se sono fregato e ho iniziato a fare di tutto, mostrando la mia grinta fin da piccolo".

Si sbagliarono, si direbbe...

"Sì. Dicevano che non potevo camminare e invece correvo, gli altri mi indicavano come un esempio di forza di volontà".

E Facebook che c’entra?

"Dopo l’infortunio ho passato mesi molto brutti, avevo 23 anni e mi avevano scartato. Allora una mia zia mi disse: metti i tuoi risultato sportivi sui social. L’ho fatto e ho aspettato. E ho ricevuto una chiamata dall’italia, una lettera dalla federazione che mi chiedeva di fare una prova per gareggiare per loro. Ho detto subito di sì, sono venuto in Italia e ho vinto due gare dopo un anno che non mi allenavo. Lì ho capito che stavo bene. Mi aveva segnalato il mio allenatore cubano Enrique Valdes, che mi aveva guidato da ragazzo e nel frattempo era venuto in Italia".

A Tokyo lo ringraziò subito.

"Quando avevo quindici anni, lui mi aveva detto: negro, se fai quello che ti dico io vinciamo mondiali e olimpiadi. Attenzione: quel ’negro’ era detto in modo affettuoso, per molti a Cuba ero il Negròn, perché ero grande e scuro. Nessun razzismo, quello l’ho trovato in Italia. Enrique si ricordava di quella promessa, a Tokyo mi ha detto: non abbiamo potuto vincere, ma è comunque una medaglia".

Parlava del razzismo in Italia.

"Eh, ogni tanto capita. Più che altro quando giro per strada con la mia ragazza, qualcuno fa battute spiacevoli. Ma lei mi fa stare calmo, anche se la cosa mi fa arrabbiare molto".

Che cosa le manca di Cuba?

"I miei amici, festeggiare con loro. A Natale stavamo insieme con tutti i parenti, come se fossimo la stessa famiglia. Questo in Italia non l’ho trovato. Vivo a Ostia, ho tanti amici, ma la gente è più riservata".

E in che cosa è più italiano?

"Io mi sento italianissimo, è un Paese che da sempre è dentro di me. Pensi che mia zia, che vive in Canada, ha ritrovato una mail in cui da bambino le scrivevo che da grande sarei andato in Italia. Era la nazionale di calcio che tifavo, e a scuola mi piaceva studiare i romani. Si vede che era destino".

Lei è molto religioso.

"Moltissimo. Il mio nome è Abraham de Jesùs. So che bisogna essere pazienti e avere fede, io ho creduto in Dio e lui mi ha aiutato tanto. Mi piacerebbe molto incontare il Papa, dovevamo incontrarlo dopo i Giochi ma poi la cosa saltò. Questo è un Papa speciale, per me sarebbe un sogno".