Giovedì 25 Aprile 2024

Da Sacchi a Zeman, la fine delle rivoluzioni

L’ex ct e Orrico, Maifredi e Zeman: com’è difficile rompere la tradizione del calcio italiano. Solo il boemo combatte ancora: a Foggia

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di Paolo Franci

Un disperato bisogno d’amore, per dirla come quella canzone. Per il pallone e la sua incrollabile fiducia nell’idea di poterlo cambiare. Dentro e fuori dal campo. Questo e chissà cos’altro ha riportato il 75enne Zdenek Zeman sulla panchina del Foggia. Magari, forse, la struggente illusione di riveder sfrecciare Signori, tocco per Rambaudi che serve Baiano. Gol. E’ Zemanlandia.

E’ il Foggia che a metà degli anni ’80 scavalca i ’90 disegnando un miracolo. Sale dalla C fino alla A con il boemo in panchina, un gioco mai visto, rapido, spregiudicato e a tutto pressing. Un eccesso tattico che diventa meraviglia. Quel Foggia stupisce il mondo seguendo il magnifico visionario nipote di Cestmir Vyckpalek, ex allenatore della Juve con due scudetti sul petto. ’Sdengo’, trent’anni dopo sulla panchina del Foggia è ancora lo stesso identico uomo, con quelle convinzioni che, certo, si possono spezzare, ma piegarsi mai, contro tutto e tutti, Juve compresa. Guardatelo lì, nella classifica del girone C della C1. Domenica scorsa ne ha presi sei col Catanzaro, partita sfregiata da quei brutti ceffi entrati in campo, con tanto di schiaffo a Iemmello e tagli di gola mimati in diretta tv. Ne ha presi sei e segnati due. E, come ti sbagli, secondo miglior attacco dietro al Palermo ma anche una delle peggiori difese con 49 gol subiti. In una parola: Zeman.

Lo aveva già rifatto a Foggia nel 2010, con Sau e un giovanissimo Insigne con il quale darà vita ad un’altra Zemanlandia, a Pescara. Immobile, Insigne, Verratti. Uno spettacolo. Lo amano visceralmente, ancora, a Roma sulle due sponde, romanista e laziale, caso unico. Anche se l’ultima avventura alla Roma è stata un disastro. A proposito, in quella squadra preferiva Tachtsidis a De Rossi, perchè il dogma tattico prima di tutto. D’accordo, ma perchè amiamo follemente questo sovversivo del calcio all’italiana anche se, come gli ha sparato in faccia Mou "ha vinto solo due campionati di B"?

Semplice. Perchè lui come pochi altri è un fenomeno identitario e coraggioso. Un calcio al pallone mainstream. Zeman è Rambo, Robespierre e William Wallace. E’ la risposta silenziosa al capo ufficio che ti vessa, al prepotente in classe, a quel maledetto che ti frega il parcheggio quando hai già messo la freccia. Ecco perchè c’è tanta acredine attorno a Sarri, passato dai paragoni con Che Guevara a Napoli - il Comandante, lo chiamavano - alla giacca e cravatta juventina, una abiura figurata alla sua fede calcistica, tutta pressing, coraggio e spettacolo tanto da meritarsi il vocabolario della lingua italiana: "Sarrismo". Quel Comandante è sparito e viva chi non volta le spalle a se stesso, urlano i puristi che ancor oggi inneggiano ad Arrigo Sacchi. Hai voglia a dirgli che vinceva perchè aveva Gullit e Van Basten. Sciocchezze. Lui ha rivoluzionato il calcio italiano, ha trasformato il timore della trasferta da lupo mannaro a opportunità di scrivere la storia. E lui l’ha scritta senza mai rinnegarsi. Pressing, 4-4-2, aggressione della metà campo avversaria, la palla come una tenera amante, deve essere mia.

E’ una splendida Fenice, invece, il calcio di Corrado Orrico alla Lucchese, talmente bella che Ernesto Pellegrini ’paron’ dell’Inter lo ingaggia per sostituire sua maestà il Trap e rispondere al Sacchi milanista. "Sì, ma con uno stipendio da operaio, per non dimenticare il mio partito", dice Orrico, con quella faccia da chansonnier francese, il sigaroe una mimica alla Totò. La Fenice volò poco e male. Finì in gabbia, che lui fece costruire per allenare l’Inter, e divenne Arpia dopo 16 partite. Dimissioni e addio. Orrico, oggi 82enne, la pensa ancora così: "Bisogna liberare il gioco del calcio dalla schiavitù degli avversari".

C’era una volta poi, Gigi Maifredi. Calcio champagne, perchè prima di diventare una star della football revolution con il suo strepitoso Bologna, faceva il rappresentate della Veuve Clicquot. Andò alla Juve, Gigi, ma mica come Sarri. Non rinnega il calcio in un flute ma le bollicine durano poco. Era un visionario, a modo suo, Gigi Del Neri. O il Guidolin di Vicenza. Lo sono stati senza incidere, qui da noi, Luis Enrique, Paulo Sousa o Montella. Lo è De Zerbi. Nessuno però, scolpito nel granito tattico come quei quattro lì: Zdenek, Corrado, Arrigo e Gigi che, se Dumas fosse ancora tra noi, altro che i tre moschettieri.