Mercoledì 24 Aprile 2024

Mondiali 1982, Giuseppe Bergomi: l'eroe bambino

Lo chiamavano ‘Zio’, perché a 18 anni aveva già baffi da grande. Diventò protagonista con gli azzurri mundial: "Sentivamo anche noi una voglia di riscatto in tutto il Paese"

Conti, Bergomi, Gentile e Zoff in trionfo ai Mondiali '82

Conti, Bergomi, Gentile e Zoff in trionfo ai Mondiali '82

Milano, 9 gennaio 2017 - «STAVAMO vincendo 2-1. Ad un certo punto si fece male Collovati, lo stopper. In panchina il ct Bearzot si girò verso di me e disse: ragazzo, tocca a te…».

Dei sei giorni che sconvolsero il calcio mondiale, tra il 5 luglio e l’11 luglio 1982, Giuseppe Bergomi fu il protagonista meno atteso. Giovanissimo, diciotto anni compiuti da poco, era il Bambino della comitiva azzurra. «Solo che, come in una canzone di Francesco De Gregori, Bill portavo due baffi da uomo e allora tutti mi chiamavano Zio, anche per sfottermi –ricorda l’ex difensore dell’Inter –. Appena appena ero maggiorenne e mi trovai a vivere una esperienza incredibile».

Cominciamo da quel 5 luglio, un lunedì. A Barcellona, stadio Sarrià. Italia-Brasile…

«No, cominciamo da prima. Onestamente eravamo una Nazionale nella quale avevamo fiducia noi giocatori e stop».

Soli contro tutti.

«Più o meno. Anche quel lunedì, il 5 luglio, avevamo contro i pronostici».

Eppure avevate già battuto l’Argentina di Maradona, campione in carica.

«Sì, ma ci aspettava il grande Brasile di Zico e di Falcao. Zero chances, eravamo l’Italietta».

Espressione di un Paese che stava uscendo a fatica da una crisi profondissima.

«C’erano stati gli anni di piombo, il terrorismo, eccetera. Però si coglieva anche una grande voglia di riscatto».

Il pallone come valvola di sfogo.

«Non so, certe riflessioni è meglio lasciarle agli esperti in sociologia. Comunque contro quel Brasile non avevamo scampo e invece…».

3-2 con tripletta di Pablito Rossi.

«Io entrai sul 2-1 a nostro favore e le gambe mi tremavano. Guardavo Dino Zoff, il portiere, e pensavo: potrebbe essere mio padre, ha quarant’anni e io diciotto».

L’incrocio tra saggezza e vitalità.

«Lui era nato nell’Italia in guerra, io in un paese già prospero, o quasi. Ed ero come catapultato nel cuore di un sogno. Hai sì e no la patente e ti rendi conto che potresti conquistare la cosa più importante in carriera, il Mondiale!».

Era un sogno o un incubo?

«Francamente non mi rendevo conto. Battemmo i brasiliani e il giovedì in semifinale ci aspettava la Polonia di Boniek. Bearzot mi prese da parte: Gentile è squalificato, parti titolare dal primo minuto».

Paura?

«Guardavo Zoff e mi passava».

Ma voi, lì in Spagna, eravate informati di quanto stava accadendo in patria, il delirio popolare, le piazze piene di tricolori, eccetera?

«Eh, all’epoca non esistevano i telefonini, men che meno Internet. Noi stavamo come in una bolla, sentivi qualcuno dall’Italia e capivi che stava accadendo qualcosa di grosso, ma l’impatto era meno diretto, meno immediato».

Anche i polacchi fecero una brutta fine.

«2-0 con altri due gol di Rossi. Non ci restava che la finale. Contro i tedeschi».

La grande Germania di Rummenigge, campione d’Europa.

«Ormai eravamo sicuri di farcela. Dall’Italia arrivò Sandro Pertini, il presidente della Repubblica. E io ero convinto di vedermela dalla panchina, la finale».

Come mai?

«Gentile aveva scontato la squalifica. Ma contro la Polonia si era infortunato Antognoni. Giancarlo provò fino all’ultimo la domenica 11, poi fu costretto a rinunciare».

E si rifece vivo Bearzot.

«Mi annunciò che dovevo marcare proprio Rummenigge».

L’idolo germanico.

«Lui. Non feci una piega. Ero come in trance».

Fu l’apoteosi, il miracolo realizzato.

«Rammento benissimo l’azione del 2-0, il gol di Tardelli seguito dall’urlo famoso. Eravamo in attacco io e il povero Scirea. Gaetano continuava a passarmi la palla sulla destra, io pensavo: ma dalla a Tardelli che tira e segna! Andò proprio così e fu bellissimo».

Eroe nazionale a diciotto anni.

«Mi sorpresi a pensare che a inizio carriera avevo già ottenuto il massimo. Ma feci presto a scoprire che la vita è una conquista continua. In campo e fuori».

Una Nazionale così non si è più vista, caro Beppe.

«Penso che quella nostra impresa fece scattare un meccanismo unico di identificazione tra un popolo e una squadra. L’Italia intera si riconobbe in noi, in quello che rappresentavamo. Nel 2006, quando hanno vinto gli azzurri di Lippi a Berlino, facevo il commentatore per Sky. È stato stupendo, ma ormai era cambiato il mondo, il contorno, tutto…».