di Lorenzo
Castellani
Lo scenario politico europeo è ambivalente per Giorgia Meloni. Da un lato la presidente del consiglio è diventata uno dei perni della politica europea: in Spagna Sanchez si è dimesso ponendo fine al governo di centrosinistra, in Francia Macron si ritrova una assemblea nazionale dove non controlla una maggioranza assoluta e in Germania Scholz e i partiti di governo sono in crisi di consensi, mentre il centrodestra governa in quasi tutto il resto di Europa.
In questo contesto la stabilità del governo di centrodestra italiano è un valore per l’Unione Europea e una buona carta nelle mani della premier che può cercare di tessere alleanze tra conservatori e popolari da una posizione centrale, proiettarsi come una delle leader del continente e costruire una futura maggioranza europea più vicina al proprio orientamento politico. Dall’altro lato però i prossimi mesi non saranno scevri dalle difficoltà per due motivi legati tra loro, cioè la faticosa attuazione del Pnrr per il sistema amministrativo ed economico italiano e l’avvio della campagna elettorale europea.
La Commissione è oggi retta da aree politiche in sofferenza come i socialdemocratici tedeschi e quei popolari, legati alla presidente von der Leyen, che non sono entusiasti per una eventuale svolta a destra del loro partito. Con la campagna elettorale in arrivo molti commissari potrebbero cercare di indebolire il governo italiano, che ha in Meloni una frontman politica oramai internazionale, proprio sfruttando ritardi e difficoltà sul Pnrr. Una commissione intransigente, proprio per cercare di mettere in difficoltà Meloni nelle urne, rischia di rendere ancor più accidentata l’attuazione di un piano incentrato su un impianto troppo centralistico e burocratico per la scarsa capacità attuativa dello Stato italiano.
La presidente del Consiglio non deve farsi irretire nelle polemiche che potranno sorgere da Bruxelles: c’è da semplificare il piano, trasformando il più possibile una miriade di piccoli progetti infrastrutturali in incentivi, detassazioni e sussidi per una nuova politica industriale che, in uno scenario di guerra e globalizzazione ristretta, è fondamentale; e poi vanno evitate frizioni con la Commissione, senza cadere in provocazioni a fini elettorali che possono arrivare da commissari che, bene ricordarlo, sono anche concorrenti politici.
In questa trama si inserisce la capacità politica di Meloni, vedremo se dopo il lavoro diplomatico con i popolari europei di questi mesi ella riuscirà a far valere i suoi buoni uffici nelle negoziazioni europee. Il governo non deve dimenticare che ci sono più tavoli aperti e che, senza esacerbare i toni, si possono giocare più partite in parallelo. L’Italia può puntare ad ottenere più flessibilità sul Pnrr e più sostegno sull’immigrazione, ma dovrà cedere qualcosa sulla ratifica del Mes e sulle condizioni del patto di stabilità.
Al fondo della questione, quando ci si muove in Europa, c’è la necessità di mantenersi credibili soprattutto quando si ha maggiore forza politica interna. Ciò significa negoziare senza strappi, avvalendosi delle persone giuste per confrontarsi con la tecnocrazia europea, portando avanti i propri obiettivi ma essendo anche pronti a concedere qualcosa senza scomporsi. Serve, in definitiva, una saggezza politica che nei prossimi mesi può essere decisiva perché forse permetterà ai partiti del governo Meloni di far parte della prossima maggioranza di governo a Bruxelles. E questa sarebbe una garanzia non da poco, per l’esecutivo stesso ma anche per il Paese.