di Giovanni Morandi
Stamani mi sono incontrato con un amico, parlavamo di Chernobyl poi il discorso è dirottato sul ciclismo, su Gastone Nencini, sulla sua famiglia e su quel giorno del luglio 1960 quando tornò vincitore dal Tour, dopo aver vinto lo stesso anno anche il Giro, e una folla di ammiratori si raccolse in festa sotto la sua casa e poi improvvisamente fu caricata e dispersa dalle camionette della celere.
Era il giorno in cui si dimise il governo Tambroni e io che avevo dieci anni ero tra quelli che erano andati a festeggiare. Mi chiesi che cosa avessimo fatto di male per ricevere un trattamento tanto violento. È un ricordo emozionante, che mi ha confermato quanto possa rivelarsi ricco l’incontro diretto tra le persone in confronto al contatto filtrato da email e altri metodi informatici che sono efficaci ma hanno la colpa di impoverire il dialogo. Se il mio amico ed io non avessimo preso un caffè insieme e ci fossimo sentiti solo per telefono quei ricordi non sarebbero stati sfiorati e risvegliati.
Inevitabilmente abbiamo parlato dello smartworking di cui in questi mesi abbiamo verificato vantaggi e limiti. Non mi sono mai mancate le occasioni e gli argomenti per dichiarare il primato del giornalismo sulla strada rispetto a quello inchiodato davanti al computer perché il primo offre il vantaggio di incontrare l’imprevisto, che fa la differenza. In più il lavoro solitario in casa comporta delle controindicazioni come l’alienazione e l’impoverimento creativo perché si riducono i contatti e le occasioni di confronto o magari di scontro che sono comunque stimolanti.
Chi rimane in casa finisce con il consumarsi come una candela. A lungo andare rischia di spegnersi. Non siamo nati per stare soli. E nemmeno per lavorare da soli.
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