Per i ragazzi degli Anni Settanta fu un capitolo, molto atteso e insieme controverso, della breve ma intensa storia del prog italiano. Per Le Orme, più semplicemente, «l’album della libertà creativa». «Oggi si direbbe della maturità», dice Aldo Tagliapietra, 79 anni appena compiuti e fondatore, nel 1965 a Mestre, della band che di lì a poco rivoluzionerà il pop italiano. ‘Contrappunti’, che di quella rivoluzione segnerà uno degli epigoni, compie cinquant’anni. Un anniversario celebrato dall’Universal con una ristampa in vinile colorato arancione e in formato limited edition, di sole 500 copie, che paradossalmente sembra suonare più attuale oggi che nel 1974. «Siamo stati tragicamente profetici», osserva Tagliapietra, bassista, cantante e compositore delle Orme. «Parlavamo del pericolo atomico, della scelta dell’India di dotarsi dell’arma nucleare, dei rischi legati a un concetto sbagliato di religiosità. Certo non avremmo mai immaginato di trovarci, mezzo secolo più tardi, in un modo peggiore di quello che denunciavamo per esorcizzare il pericolo di una nuova guerra. Sinceramente pervasi di ottimismo e pacifismo, temevamo che il mondo potesse andare alla deriva. Oggi sembra stia succedendo davvero».
Che effetto le fa?
«Sono molto deluso e amareggiato. Nel 2024 il genere umano dovrebbe cercare la pace, non riportare indietro l’orologio della storia. E invece tutto quanto di più brutto abbiamo vissuto nel Novecento sta tornando».
In fondo è quanto denunciava un brano come ‘India’.
«L’abbiamo scritto sapendo che il Paese simbolo delle lotte pacifiste aveva deciso di munirsi dell’arma atomica. Un tradimento. L’India era il mito di tutti noi ragazzi degli Anni Sessanta, a partire dai Beatles. Solo che ai tempi avevamo fiducia nell’umanità, oggi sono stordito. La Russia ha un arsenale atomico di 15.000 ordigni; per distruggere il pianeta ne bastano 5.000: che senso ha questa corsa agli armamenti?».
‘Contrappunti’ era un modo per affrontare temi sociali in chiave pop-rock?
«La nostra generazione ha avuto grande sensibilità per i problemi della società. L’inquinamento, la cementificazione, la denatalità – tanto per citare quelli oggi più attuali – erano argomenti di discussione e, a volte, di ispirazione. Un brano di Contrappunti, La fabbricante d’Angeli, denunciava la piaga degli aborti illegali».
Brano il cui impegno, però, non fu capito allora…
«Per scelta, eravamo fuori dal cosiddetto movimento che imperniava allora la controcultura giovanile e anche molta musica. La nostra scelta non era di tipo ideologico. Semplicemente, il lavoro sui dischi, la passione per la ricerca musicale ci avevano assorbito tanto da non lasciarci tempo da dedicare alla politica, come invece facevano gli studenti e i giovani della nostra età. Non abbiamo mai suonato su un palco delle feste del Pci, molte critiche contro di noi nascevano da questo».
‘Maggio’, il brano sulla Festa del lavoro, nasceva da una frase di Paolo VI: «L’uomo è il primo e il più grande fra i tesori della terra».
«Avrebbe potuto chiamarsi “le bandiere e l’acqua santa“, il ritratto di due Italie diverse e apparentemente contrapposte. In Veneto vedevamo molti operai che si professavano comunisti ma che la domenica si ritrovavano puntualmente in chiesa per la messa. Anch’io da bambino sfilavo in processione, vestito da fraticello, e facevo il chierichetto. Ma crescendo ho iniziato a guardarmi incontro, scoprendo che l’unica religione che m’interessava era la spiritualità».
Paolo VI però vi aveva colpito?
«L’universo ha messo l’uomo al centro, giusto sottolineare questa preziosità che è la vita. Una vita consapevole, però. Maggio, il brano che avevamo scritto, anticipava una sorta di compromesso storico: ci sono due fazioni? Veniamoci incontro».
Del titolo ‘Contrappunti’ ci sono varie interpretazioni. Quella giusta?
«Lavorando all’album abbiamo voluto dare spazio alla nostra anima di gruppo rock, ma aperto alle contaminazioni. L’apporto strumentale di Gian Piero Reverberi come pianista fu la novità principale in quel momento. Era grazie alla sua solida formazione classica che sperimentavamo qui, dopo i canoni e le fughe, il “contrappunto a quattro voci”. Da qui il titolo dell’album e anche la scelta di Reverberi di entrare temporaneamente nella formazione».
Le Orme sono il gruppo che ha generato in Italia la trasformazione del beat in una formula pop-rock da cui sarebbe poi nato il progressive. Eravate consapevoli di quanto stavate facendo?
«Facevamo parte di quel movimento che voleva cambiare il mondo e che per qualche mese c’è anche riuscito. Siamo stati fortunati a trovare un discografico disposto a investire su di noi e a farci incidere il primo disco. Il resto l’hanno fatto la nostra curiosità e la nostra caparbietà».
Il prog italiano, nei primi anni Settanta, si troverà a guardare a testa alta i grandi gruppi inglesi.
«Non solo noi, anche gli altri gruppi musicali in quegli anni stavano scalando le classifiche alzando l’asticella della qualità della propria produzione musicale, della sperimentazione e dei contenuti. Quando abbiamo sentito la musica dei Nice e le suite dei Genesis ci siamo detti: è così che si fa? Si può mescolare il pop alla classica? Allora facciamolo anche noi».
Nella storia delle Orme ci sono anche due Festival di Sanremo.
«Il primo, nel 1982, è servito a farci sciogliere. Il secondo, nel 1989, doveva ridarci visibilità dopo anni difficili. Ci ha semplicemente mostrato come il nostro mondo non esistesse più».