Pupi Avati, a ottantacinque anni, stupisce ancora. L’orto americano, film di chiusura della Mostra passato ieri al Lido, è girato in un bianco e nero pazzesco, ricco, complesso, denso di chiaroscuri come una fotografia di Ansel Adams. E Avati riesce a farci sentire esattamente che cosa prova un adolescente quando si innamora, quando "pensa che sia arrivata la persona promessa dal destino". Lo fa, come se quella adolescenza fosse ancora, pienamente, dentro di lui. Come se non fosse mai andata via.
È la scena iniziale, ambientata nei giorni della Liberazione, in Emilia. Una ragazza, in divisa da ausiliaria, si affaccia per chiedere indicazioni nella bottega di un barbiere. Le basta uno sguardo, per fare innamorare un giovane aspirante scrittore, interpretato da Filippo Scotti. Poi, la storia prende tutta un’altra piega: diventa un thriller gotico, una storia di erotismo e omicidio, di morti che non vogliono morire, di realtà e inganni della mente. Ma quelle prime immagini rimangono nella memoria.
"Nessuno, oggi, può immaginare quanto fosse forte e bruciante l’amore, l’innamoramento di quegli anni", dice Pupi Avati. "L’innamoramento che comportava l’ “andare dietro“. Io andavo dietro a una ragazza, Paola Zuccotti, via Andrea Costa 22. Mi mettevo alla porta di casa sua, e quando lei usciva alle 17 io la seguivo, da lontano: andava in chiesa, in merceria, in cartoleria… Ero innamorato, e non osavo parlarle. Eppure, nessuno può immaginare quanto quell’innamoramento fosse forte, quanto fosse assoluto".
Il nuovo film di Avati L’orto americano, che uscirà nelle sale con 01 nel febbraio 2025, riporta al Lido il regista – che ha il record di partecipazioni alla Mostra (ben dieci nella selezione ufficiale) – e in qualche modo lo riporta anche alle sue origini, a La casa dalle finestre che ridono, horror del 1976 che vinse il premio della Critica al Festival du Film Fantastique di Parigi, divenendo poi un culto. Il protagonista de L’orto americano vede il personaggio interpretato da Filippo Scotti parlare con i morti. "È una cosa che faccio anche io", rivela Pupi Avati. "In una parete di casa mia, ho i ritratti di tutte le persone che mi sono state care, in primis dei miei genitori, e parlo con loro. Avvicinandomi all’ultima parte della mia vita, non ho più paura della sincerità. E sinceramente vi dico che parlo con i morti".
C’è qualcosa di hitchcockiano nel bianco e nero del film di Avati, in quella casetta di legno che ricorda un po’ quella di Psycho. E forse c’è qualche similitudine anche nelle vite dei due registi: entrambi timidissimi, insicuri, imbarazzati durante l’adolescenza dal proprio aspetto fisico. Ed entrambi capaci di rovesciare i propri fantasmi nei film che hanno creato.
"Sono stato un essere umano timido con un enorme complesso di inferiorità per il mio aspetto estetico", dice Avati. "Però sono la prova che esistono i miracoli. Il miracolo di uno che vendeva bastoncini di pesce, e che si trova oggi ad aver fatto 55 fillm, perché ha avuto la forza di sognare, e anche di essere irragionevole". L’accenno ai bastoncini di pesce allude a quando, prima di dedicarsi al cinema, Pupi Avati era impiegato nel reparto surgelati di un supermercato, ma sognava la musica – suonava in un gruppo jazz – e il cinema.
"Era difficile mettere insieme il dopoguerra italiano, le macerie dei bombardamenti americani, con un film di genere gotico, un film che avesse una sua tensione", spiega Avati a proposito de L’orto americano. "Il bianco e nero ci ha aiutato molto. Ci sono delle inquadrature che mi sono rimaste dentro da quando, ragazzino, frequentavo i cineforum. Ci sono molti momenti che non sono miei, ma appartengono al cinema di registi più grandi di me. Ho scoperto, a questa età, che il bianco e nero è più intensamente cinema dei film a colori. Il bianco e nero crea un altrove, qualcosa che va oltre la realtà. E quello è il cinema: l’altrove. Innamoramenti che durano per sempre, o uno che parla con i morti".