
Sul sito e nei cartelli all’ingresso ribadite le regole sull’abbigliamento. Finisce la “linea morbida“ voluta dall’ex sovrintendente Meyer.
"La Direzione invita il pubblico a scegliere un abbigliamento consono al decoro del Teatro. Non sono ammessi all’interno spettatori che indossino canottiere o pantaloni corti; in questo caso i biglietti non sono rimborsabili". L’avviso, comparso sul sito internet e su cartelli all’ingresso e in biglietteria, è chiaro: alla Scala in canotta e bermuda, magari completati da sandali d’ispirazione teutonica con calzino, non s’ha più da entrare. Non che prima si potesse: il dress code al Piermarini non era mai formalmente decaduto; semplicemente non veniva fatto rispettare, e chi si presentava in mise degne d’una gita aziendale fantozziana rimediava, al più, qualche occhiataccia.
Una tolleranza voluta dall’ex sovrintendente Dominique Meyer: "Mi importa che i giovani vengano, non come sono vestiti", diceva, scottato dai rimproveri subiti da ragazzo all’Opéra (che ha poi diretto) per il suo look "da operaio". Solo che Meyer, francese benché alsaziano, si misurava con la puzza sotto il naso dei parigini del secolo scorso, il cui concetto d’abbigliamento da working class doveva somigliare più a quel che oggi indosseremmo noi per andare a chiedere un mutuo in banca che a certe scosciature respinte persino nelle chiese più turistiche.
Comunque il dress code reintrodotto nell’era di Fortunato Ortombina non sarà draconiano: niente cravatta obbligatoria come in Parlamento, le signore potranno continuare a sbracciarsi e nessuna giapponese sarà rimbalzata per aver indossato sandali e calzini tabi sotto il kimono. Anzi il discorso sul decoro, che sarà affrontato in un articolo sul numero di settembre della rivista della Scala a breve leggibile online, si estende ai comportamenti, ribadendo la richiesta di silenzio in sala, il divieto di fumare, di "introdurre bicchieri e generi commestibili" e bere o mangiare fuori dal bar del teatro e dai foyer, di scattare foto, registrare audio o video e usare altrimenti il cellulare durante le rappresentazioni. Se l’appello al bon ton pare ridondante, giova ricordare due episodi a caso: tre anni fa il maestro Riccardo Chailly interruppe l’esecuzione per apostrofare ("Risponda pure") il proprietario d’una suoneria che trafiggeva il coro “Patria oppressa” del Macbeth; l’anno scorso uno spettatore in platea fu centrato da uno smartphone in caduta libera da un palco.
Se però qualcuno avesse la tentazione di festeggiare un ritorno al buon gusto italico, dopo un ventennio di sovrintendenti francesi e austriaci, meglio che prima visiti una mostra trasmigrata online (storiadeipalchi.teatroallascala.org), dedicata all’epoca dei “palchettisti“. Scoprirà che dall’apertura del teatro nel 1778 e per oltre un secolo, almeno fino all’arrivo di Arturo Toscanini che impose al pubblico puntualità e silenzio vietando pure i cappellini troppo ingombranti, erano gli stranieri a scandalizzarsi di quel che accadeva alla Scala, tra grida, lanci d’oggetti e quello che Stendhal chiamava "il salotto che riuniva tutti i salotti di Milano": lo spettacolo, anche più importante di quello in scena, dei palchi di proprietà, arredati come case, dove si mangiava, si beveva, si fumava, si ordivano moti risorgimentali in barba agli austriaci e si giocava d’azzardo. Anzi gli austriaci, prima che i francesi lo legalizzassero, autorizzarono il gioco solo nei teatri d’opera: al casinò nel Ridotto della Scala rischiò di rovinarsi persino l’Alessandro Manzoni.