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Collio, la culla dei grandi bianchi alla sfida della modernità

di MICHELE MEZZANZANICA -
14 febbraio 2023
Vinyards in the Collio

Vinyards in the Collio

La grande pianura disegnata dal Tagliamento, con i suoi terreni ghiaiosi e sabbiosi, restituisce vini dai ricchi profumi, immediati e freschi; le colline nella zona dell’Isonzo, a ridosso del confine sloveno, sono invece caratterizzate dalle marne, terreno calcareo, che donano al vino struttura e complessità che si apprezzano nel tempo. La Grave e il Collio, le due grandi denominazioni del Friuli Venezia Giulia. Entrambe votate quasi esclusivamente al bianco, eppure capaci di esprimere rossi alle volte eccezionali. Molto più ampia la prima, 7.500 ettari tra le province di Udine e Pordenone, che deve tuttavia difendersi dall’avanzata della Glera dopo che anche questi territori possono fregiarsi del marchio Prosecco Doc, sicuramente più spendibile sui mercati; una piccola nicchia la seconda, appena 1.500 ettari tutti collinari che si estendono in otto Comuni della provincia goriziana. Nicchia di altissimo livello, perché è nel Collio che nascono alcuni dei vini bianchi migliori d’Italia. Da varietà autoctone quali Ribolla Gialla, Malvasia, Friulano (ex Tocai) e Picolit, ma anche da internazionali quali Chardonnay, Pinot Grigio e Sauvignon che qui assumono una connotazione del tutto particolare. Merito della Ponca, conformazione rocciosa che alterna strati di marna e arenaria, caratteristica di questi terreni. “Abbiamo la fortuna di vivere e lavorare su un territorio che ha equilibri propri che si trasmettono nella maggior parte dei vini bianchi, senza particolari sforzi sulla tecnica di lavorazione: qui qualsiasi bianco trova un suo equilibrio e marca bene il suo carattere in maniera naturale”, commenta David Buzzinelli, presidente del Consorzio tutela vini Collio. “Al Collio - prosegue - viene spesso rimproverato di avere troppe varietà, ma se le assaggiamo nel tempo scopriamo che hanno un comune denominatore, avvertiamo in tutte questa pietra focaia e questa salinità che sono il carattere distintivo dei nostri vini. All’inizio il vino spinge molto sulla varietà, ma le nostre bottiglie non hanno la necessità di essere bevute entro sei mesi. Hanno capacità di trascinamento ed è proprio negli invecchiamenti che si sente l’essenza del Collio. Da noi non si beve la varietà, si beve il territorio”. Terroir, per dirlo alla francese, termine spesso abusato che qui invece trova piena applicazione, in un posto dove l’identità culturale, forgiata da secoli di commistioni culturali anche violente, è molto sentita in ogni aspetto della vita cittadina. Meno di 300 le aziende vinicole, metà delle quali non arriva a 100mila bottiglie l’anno mentre le più grosse non superano le 500mila. Una dimensione quasi familiare, territoriale nel vero senso della parola appunto, anche se non sempre piccolo è bello. “Chiaro che a livello di mercati questa dimensione la soffri - ammette Buzzinelli (nella foto) - perché andare negli Stati Uniti con 600mila bottiglie o con due milioni è diverso, come immagine e soprattutto come costi". Anche per questo, metà delle circa 7 milioni di bottiglie Collio Doc prodotte in un anno sono vendute in Italia. La sfida di questa nobile e antica denominazione (1964 l’anno di fondazione del Consorzio di tutela), è quella di trovare una propria dimensione e competitività nel mercato attuale, caratterizzato da nuovi territori emergenti sull’onda della ricerca spasmodica di vitigni autoctoni, oltre che dalla crescita bianchista di zone tradizionalmente votate ai rossi. “Sicuramente il Collio lavorerà per avere avere un’identità sempre più forte - afferma Buzzinelli - puntando maggiormente su uve autoctone e su varietà nobili che si erano un po’ perse, come ad esempio il Pinot Bianco. Ma la partita più importante sarà dimostrare come esista un terroir comune a tutti i nostri vini, una caratteristica che emerge negli anni, nelle bottiglie più mature". Vino bandiera di questo messaggio è il Collio Bianco, blend di diverse varietà (solitamente tre) riconosciute dal disciplinare, fiore all’occhiello e ‘firma’ delle cantine che lo producono a libera interpretazione dell’enologo. Forse anche troppo libera e per questo il consorzio, tra l’altro assecondando una tendenza già in atto, andrà a stringere le maglie puntando sui vitigni autoctoni. “Metteremo qualche paletto in più, per ottenere maggiore identità territoriale”, conferma il presidente.