Venerdì 26 Aprile 2024

Pausa caffè, rito sociale. "Lo stop fa bene al lavoro"

Il sociologo: ma sia una zona franca, senza controlli

La sit-com Camera Cafè

La sit-com Camera Cafè

"In media prendo tre caffè al giorno. Alla macchinetta o al bar". Vanni Codeluppi, professore ordinario di sociologia dei processi culturali allo Iulm di Milano, non si meraviglia della dirompente crescita italiana nel mercato della distribuzione automatica. Da sociologo dei consumi ha investigato merci, tendenze e modelli. Ora ha virato sui media ma senza dimenticare i luoghi del consumo. E i suoi riti alternativi. Dal caffè agli snack, dalle bevande ai pasti pronti, il made in Italy sorprende anche sul fronte dei distributori automatici di prodotti alimentari. Il settore impiega 30mila persone e vale 3,4 miliardi, cifra-record toccata grazie a una crescita annua del 3,1% tra vending (per 1,8 miliardi) e ocs(il mercato delle capsule e cialde, da 1,6 miliardi).

Professore, non siamo più il Paese che combatte la pausa caffè?

"Per fortuna no. E se non sbaglio persino con il nulla osta della Cassazione, che suggella il rito con la sola eccezione di chi esagera".

La tazzina per diritto?

"La pausa caffè ristora il lavoratore. Nella prassi quotidiana è un intervallo ricreativo che nessun datore di lavoro mette più in discussione. Del resto già negli scorsi anni la sit-com Camera Café aveva ben illustrato il fenomeno aziendale nelle sue varie applicazioni".

Potenza della caffeina o strategia d’impresa?

"Ormai si è capito che all’interno delle aziende occorre creare un clima di relazioni personali positivo e fecondo, in grado di stimolare la creatività dei dipendenti e in definitiva la loro produttività. Dunque, la pausa caffè o la pausa snack sono elementi fondamentali di questa dinamica di alleggerimento. Senza contare che i gestori delle macchinette qualcosa ‘lasciano’ a chi le ospita. E quindi tutto torna, mi pare".

Contenti i lavoratori, contenti i datori di lavoro.

"Beh, possiamo certamente metterla così. Del resto gli Stati Uniti da tempo indicano la via per modificare gli ambienti di produzione, specialmente in ambito creativo. Ora anche in Italia cominciano a vedersi aziende innovative a partire dalla progettazione degli spazi pensati per garantire libertà e benessere, dai punti-ristoro alla palestra interna, solo per fare due esempi".

Rivoluzione&progettazione?

"In questo senso, da italiani bravi e fantasiosi – con gusto innato – potremmo e dovremmo fare molto di più. Attivando nei luoghi di lavoro anche macchinette erogatrici di frutta fresca, cibo biologico, e tutto il meglio che serve a sentirsi bene. Allo Iulm, dove ho la cattedra, l’offerta è già molto varia e salutista".

La pausa caffè rigenera il lavoratore, ma a volte serve anche a farlo sfogare.

"È un rito aziendale che ha le sue traiettorie. Un momento di decompressione e ricarica, nel quale può starci benissimo il pettegolezzo tra colleghi, la battuta o la critica. Anche al capo".

Che poi magari viene a saperlo e s’arrabbia.

"Sì, ma senza poter prendere provvedimenti. Perché la pausa caffé è una sorta di zona-franca, dove la libertà trionfa. L’esatto contrario di quanto stanno diventando i social network. Le imprese sempre più spesso controllano i commenti dei dipendenti e, quando possono, licenziano. In modo esagerato".

Come lo spiega?

"Ipersensibilità reputazionale. In Rete tutto resta. Mentre una critica anche maliziosa, davanti alla macchinetta da caffé, è destinata a durare una tazzina. Il tempo perfetto per sfogarsi, rigenerarsi e tornare in produzione. Senza rappresaglie".

Una paradossale declinazione di vecchi e nuovi riti.

"Già. La pausa caffè sdoganata e promossa. Le traiettorie dei lavoratori sui social network sorvegliate con puntiglio. A quanto pare, oggi è così. Ma si può sempre migliorare, se l’obiettivo è avere dipendenti creativi e motivati".

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