Mercoledì 24 Aprile 2024

Mascherine: magazzini pieni e concorrenza cinese. La filiera è in crisi

In Italia da inizio pandemia sono stati usati oltre 46 miliardi di dispositivi, ma oggi le nuove aziende nate o riconvertite in quei mesi sono già in ginocchio. Vendite quasi azzerate

Finita l'emergenza Covid, stop alle mascherine (Ansa)

Finita l'emergenza Covid, stop alle mascherine (Ansa)

Roma, 10 maggio 2023 – La filiera delle mascherine sembra arrivata all’epilogo. Negli ultimi tre anni sono servite a tutti come l’acqua: ci hanno protetto durante il Covid, ci hanno consentito di riabbracciare amici e parenti, ci hanno permesso di tornare a lavoro e di spostarci. E oggi, quando anche l’Oms - proprio pochissimi giorni fa - ha dichiarato la fine dell’emergenza globale legata al Coronavirus, un’intera filiera nata da pochissimo sembra già in profonda crisi.

I produttori in crisi

Chi si è messo a produrre i dispositivi di protezione, infatti, oggi affronta un calo della domanda pesantissimo e, soprattutto, una concorrenza senza eguali rispetto al mercato cinese. Le aziende nate dal 2020 in poi hanno sofferto ancora di più il cambio di rotta, mentre chi aveva convertito parte della propria produzione in virtù della pandemia è tornato sui propri passi. A oggi, i produttori restano davvero pochi e in ginocchio.

Una bolla da 129 miliardi pezzi al mese

Basti pensare alla mole di prodotti e al giro di affari generato negli ultimi anni: secondo una stima definitiva “conservativa” da Sima (la Società italiana medicina ambientale), sarebbero almeno 46 miliardi le mascherine utilizzate in Italia da inizio pandemia al 2022, e ben 129 miliardi a livello globale quelle consumate ogni mese. In pratica tre milioni ogni minuto. In Italia in molti ricorderanno i moniti del primo lockdown e l’esigenza espressa a più riprese anche dal governo di dotare il Paese di una filiera, che coprisse un fabbisogno di almeno 90 milioni di mascherine ogni mese. La filiera è nata, eppure il suo sviluppo sembra già esaurito.

Oggi sono tornate un presidio medico

Dallo scorso anno è caduto l’obbligo di indossare chirurgiche, Ffp2 e simili, rimasto per mesi soltanto per chi avesse la necessità di recarsi negli ospedali o nelle Rsa, luoghi in cui ancora vige il diktat della prudenza. Tantissime aziende, però, si trovano ancora con i magazzini pieni di dispositivi e senza la possibilità di venderli. Inutile parlare dei costi e degli investimenti ormai andati con ogni probabilità in fumo, soprattutto per chi - votatosi al Made in Italy - ha dovuto acquistare nuovi macchinari e riadattare parte dei propri stabilimenti.

Pesa la concorrenza cinese

Il problema principale resta, come detto, soprattutto quello della competitività rispetto al mercato cinese: nello specifico i bandi di gara delle strutture pubbliche, che esprimono la richiesta di forniture per aziende sanitarie, ospedali e altri utilizzi dei dpi, sono stati gradualmente aperti a tutti, anche a chi importa le mascherine dall’estero, con prezzi di partenza solitamente molto bassi. E così gli importatori riescono con facilità a proporre offerte vantaggiose, acquistando a prezzi irrisori da produttori cinesi. Un problema che la filiera ha accusato fin da subito, e che ora si è acuito ancora di più a causa del calo della domanda di dpi. Non solo: con il drastico calo della domanda, verso i bandi pubblicati dalla pubblica amministrazione è scattata la corsa delle tante aziende che hanno la necessità di liberarsi di milioni di mascherine invendute. Ecco che il prezzo è piombato ulteriormente al ribasso, fino a 5 centesimi per mascherina, praticamente al di sotto del costo di produzione.

I produttori: prezzi troppo bassi per stare sul mercato

L’allarme arriva soprattutto dal Cepm, il consorzio europeo produttori mascherine, che in Italia conta 19 associati: “Nessuno riesce a stare sul mercato - aveva spiegato il presidente Alessandro Rubello al Post -. Ho partecipato a due audizioni in Senato per spiegare i problemi, ma non è stata fatta una programmazione, non ci sono accordi. Tra ospedali e uffici pubblici, l’Italia ancora oggi ha un fabbisogno che potrebbe essere coperto dalla filiera italiana. Invece purtroppo siamo tagliati fuori”.

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