Giovedì 2 Maggio 2024

Presidenziali Usa. Tutte le questioni economiche della corsa al voto

La crescita al 3,3%, l’inflazione ai minimi e l’occupazione record potrebbero non bastare a Biden per garantirsi la rielezione

Il professor Gregory Alegi

Il professor Gregory Alegi

Quando Bill Clinton sfidò George H.W. Bush, l’elezione ruotava tutta intorno al rilancio di un’economia al rallentatore. Nel quartier generale del candidato democratico comparve così un cartello destinato a entrare nella leggenda politica: "It’s the economy, stupid".

In effetti, da Herbert Hoover a McCain è molto difficile per un presidente o il suo partito mantenere o conquistare la Casa Bianca se l’economia soffre, l’incumbent non riesce a raddrizzarla o il candidato non sa convincere gli elettori di avere un piano per farlo. Joe Biden, in crisi di popolarità nonostante il buon andamento dell’economia statunitense, sembra l’eccezione a questa correlazione. È davvero così?

Dalla crescita del 3,3 per cento nel 2023, con pieno superamento del calo causato dall’invasione russa dell’Ucraina all’inizio del 2022, all’inflazione riportata sotto il 2 per cento, fino all’occupazione (con la creazione di 2,7 milioni di posti nel 2023), il quadro è largamente positivo. "Salari, ricchezza e occupazione sono oggi più alti di quanto fossero prima della pandemia", ha sottolineato il presidente Biden, rivendicando il ruolo degli investimenti pubblici dell’Infrastructure Investment and Jobs Act (1.200 miliardi di dollari) nel mobilitare risorse private (altri 640 miliardi) per rinnovare ponti (un miliardo per la sola sostituzione del vecchio Blatnik Bridge, tra Minnesota e Wisconsin, appena annunciata), strade, ferrovie, porti e persino banda larga. Il riaggiustamento in corso nel settore tech, che vede quasi tutti i grandi protagonisti limare l’occupazione, è interpretato più come la fine della crescita trainata dalla spinta alla digitalizzazione e all’online dovuta alla pandemia che a una crisi. Persino la crisi di Twitter/X sotto l’erratica gestione di Musk e il ridimensionamento dell’utopico “metaverso” di Zuckerberg sembrano solo momenti fisiologici nella storia delle aziende.

Nel complesso, benché restino aperte molte questioni strutturali, dalla distribuzione diseguale della ricchezza al debito pubblico esploso per i tagli delle tasse dei repubblicani, Biden è stato molto più efficace di Obama, che pur eletto sull’onda della crisi finanziaria del 2007 non sfruttò il mandato ricevuto dagli elettori per riformare l’economia.

Il successo di Biden è ancor più rimarchevole in considerazione del contesto internazionale e di maggioranze limitate o addirittura inesistenti. Proprio questo ha portato i repubblicani – o meglio, Trump – ad applicare al contrario la massima clintoniana, bloccando il bilancio federale per creare scontento. L’approvazione con il contagocce, un trimestre per volta, colpisce l’economia e la rende ostaggio di una polarizzazione interna tanto forte da essere disposta a danneggiare il Paese pur di creare un effimero vantaggio elettorale. Sintomo di questa indifferenza – per non dire irresponsabilità – è lo scontro sulla legge di autorizzazione della Federal Aviation Administration, l’ente responsabile del funzionamento del trasporto aereo e dell’industria aeronautica. Ciò ostacola, tra l’altro, il superamento i problemi di qualità del Boeing 737, un programma che da solo vale miliardi per l’economia statunitense.

Tanto peggio, tanto meglio, insomma, perché senza crisi – economiche, al confine con il Messico, nelle università – difficilmente scatterebbe la mobilitazione del blocco che elesse Trump nel 2016. In realtà, i temi politici non mancano. Primo tra tutti, l’impegno degli USA a favore dell’Ucraina e, quindi, l’opposizione alla Russia di Putin. È un tema essenziale all’identità occidentale, né si comprende come l’America possa tornare “grande”, secondo slogan MAGA, retrocedendo di fronte alla sfida lanciata da un paese con meno della metà della sua popolazione, un sesto del PIL e un’economia di sussistenza interna e pura esportazione di materie prime.

Altro tema cruciale è il rapporto con la Cina, sfidante globale ma anche anello cruciale dell’industria statunitense (classico l’esempio degli iPhone “designed in California, made in China”) e secondo possessore straniero di titoli del debito pubblico Usa (in calo rispetto a qualche anno fa, ma sempre importante). Trump ha già lasciato trapelare che rilancerebbe lo scontro, posizione difficile da conciliare con l’altro annuncio di non voler difendere Taiwan. Né si può dimenticare la definizione del rapporto con Israele: spingere verso una soluzione negoziata (Biden, anche con qualche durezza) o sostenere anche nelle decisioni provocatorie (Trump, che spostò la sede dell’ambasciata a Gerusalemme)?

Sul versante interno, restano le battaglie culturali che in questi giorni hanno visto chiudere le sale museali dedicate ai nativi americani e rimuovere una statua di Thomas Jefferson, che in quanto proprietario di schiavi viene accomunato a un qualsiasi generale sudista. Resta una questione aperta l’aborto che, privato di protezione costituzionale nel 2023, ha spinto i democratici in alto nei sondaggi. Potrebbe pesare il tracollo della NRA, la lobby dei proprietari di armi divenuta da anni uno straordinario collettore di voti, travolta dallo scandalo dei vertici e a rischio di essere dissolta dal tribunale. E a proposito: resta vedere se le condanne (per ora solo civili) azzopperanno Trump o galvanizzeranno i suoi.

Far saltare l’economia appare insomma solo una cinica scommessa sul fatto che verrebbe addebitato all’incumbent anziché al responsabile. Se questo è vero, le presidenziali 2024 sembrano dirette verso due alternative. Se Trump riuscirà a ottenere la nomination, si avrà a una sorta di rivincita sul 2020: due anziani in lotta per “l’anima degli Stati Uniti”, con Trump sempre più esplicitamente anti-sistema, per sete di rivincita o perché eterodiretto. Lo slogan di Biden diventerebbe "It’s about saving democracy, guys". Se, al contrario, le grane giudiziarie dell’ex presidente dovessero indurre i repubblicani a candidare Nikki Haley o qualcun altro, l’asimmetria anagrafica premierebbe con ogni probabilità il concorrente più giovane, a prescindere dallo schieramento. Ovvero, "It’s about age, grandpa".

*docente di Diplomazia della Luiss School of Government e professore di Storia e Politica USA nel Dipartimento di Scienze Politiche Luiss

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