Mercoledì 24 Aprile 2024

Silvia Tortora, una vita per la verità Dolce guerriera nel nome del padre

Si è spenta alla stessa età di Enzo: 59 anni. Il calvario familiare e la battaglia per una giustizia giusta

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di Viviana

Ponchia

Stava male da un anno, molto prima aveva cominciato a ritirarsi dalla vita spesa nel nome del padre. Silvia Tortora è morta la notte scorsa in una clinica romana. A 59 anni, come il suo papà, che se ne andò il 18 maggio del 1988 per un cancro ai polmoni. Lo guardava da casa tutti i venerdì sera con la sorellina Gaia, come faceva metà degli italiani. L’uomo del Big ben che dice stop e cerca di fare parlare un pappagallo, il fenomeno capace di inchiodare 28 milioni di persone alla tivù. Un mercato pazzerello dove trovi questo e quello: poi suonò profetico. Perché la bomba cadde in mezzo alle stramberie della trasmissione più rivoluzionaria della Rai dove si organizzavano matrimoni e si ritrovavano vecchi amici.

Il presentatore galantuomo che chiamava la mitica Renée Longarini "sua soavità" fu centrato in pieno da un’accusa che avrebbe stentato a comprendere persino nella storia di un Barbablù di passaggio: spaccio, detenzione, uso di sostanze stupefacenti, affiliazione alla camorra. Anche l’onta estrema di essersi appropriato di fondi da destinare ai terremotati. Era il 17 giugno 1983, Silvia aveva 21 anni. C’è una foto bellissima di loro due prima della caccia alle streghe, un abbraccio che è un fondersi l’uno nell’altra e un presagio di quella che sarebbe stata la missione della figlia: buttarsi in prima linea nella difesa delle ragioni del padre durante il processo e continuare a raschiare gli schizzi di fango anche dopo la sua morte.

Il 24 giugno in un memorabile fondo Enzo Biagi fu il primo a domandarsi: "E se Tortora fosse innocente?". Fu condannato per associazione camorristica e poi assolto con formula piena tre anni dopo, quando riprese le redini del suo Portobello con un leggendario "Dunque, dove eravamo rimasti?". Ma la bomba era radioattiva, la cura già inutile. E anche Silvia si portava addosso le schegge. Nel 2018 era sempre ferma lì: "Dal mio punto di vista non è cambiato nulla: sono 30 anni di amarezza e disgusto. Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito". Intanto c’era da mandare avanti la vita. Firmava il soggetto cinematografico del film Un uomo perbene di Maurizio Zaccaro, nastro d’argento al Festival di Taormina nel 1999, si legava professionalmente a Mixer di Giovanni Minoli e sposava Philippe Leroy, con il quale è diventata mamma di Philippe jr. e Michelle. Ma quels yeux tristes, madame. Le diagnosi delle brutte malattie richiedono esami obiettivi accurati: effetti della bomba a lungo termine, conseguenze dello scavare incessante nella melma dove un pubblico ministero definisce papà "cinico mercante di morte" e crede alle parole del camorrista schizofrenico Giovanni Pandico, a Pasquale Barra detto ‘o animale perché mangia l’intestino dei nemici. Silvia Tortora spala e accumula e lascia qualcosa perché nessuno dimentichi.

Papà le scriveva dal Regina Coeli, dal carcere di Bergamo e della casa di Milano dove scontò i domiciliari. Lettere che sono un pugno nello stomaco e che lei ha voluto raccogliere nel libro "Cara Silvia".

Lui aspetta che giustizia sia fatta e intanto si preoccupa per le sue bambine, consiglia buone letture, raccomanda: "Vai su una bella spiaggia". Nell’ultima, da aprire solo dopo, scrive: "Sii te stessa e non mollare. Papà non l’ha fatto mai. Si vive solo così, oltre la vita. Nei ricordi di chi ci ha amato. E tu sei la sola, credo, che soffrendo mi ha pienamente, completamente, amato".