Mercoledì 24 Aprile 2024

La sfida al sistema di Rosa Oliva: "Così lottai per tutte le lavoratrici"

Il suo ricorso contro la candidatura respinta per la carriera prefettizia aprì al mondo femminile le porte dei concorsi pubblici. "Quel bando era anticostituzionale, perciò vinsi. Ma la strada per colmare il divario di genere è ancora lunga"

Roma, 9 marzo 2023 - ​È stata la prima donna italiana a sfondare il soffitto di cristallo della Pubblica amministrazione. Rosanna Oliva de Conciliis, giurista, scrittrice, fondatrice e Presidente onoraria della Rete per la Parità, è da una vita in prima linea per i diritti delle donne. Ma tutto cominciò nel 1960, quando una storica sentenza della Consulta, su sua istanza, aprì le porte della carriera prefettizia e di altri concorsi pubblici anche alle donne. La Corte costituzionale emise un verdetto impensabile per i tempi: una donna sarebbe potuta diventare prefetto, giudice, diplomatica. E tutto questo nacque da una sua iniziativa. "Io mi ero laureata in Scienze politiche a Roma con il professor Mortati, che era stato tra l’altro componente dell’Assemblea costituente. Era il 1958. Pensai di presentarmi ad alcuni concorsi per carriere pubbliche. Tra le varie domande, presentai quella per la carriera prefettizia. Anche se tra i requisiti che comparivano sul bando c’era l’appartenenza al sesso maschile".

La notizia sui giornali del ricorso vinto da Rosa Oliva nel 1960
La notizia sui giornali del ricorso vinto da Rosa Oliva nel 1960

Lei decise di lanciare la sfida?

"Io ero consapevole di non avere quel requisito, ma avevo studiato la Costituzione e sapevo che per l’articolo 3 tutti i cittadini hanno pari dignità davanti alla legge senza distinzioni, innanzitutto "di sesso", e che, inoltre, questa uguaglianza era ribadita nell'articolo 51, proprio riguardo all'accesso alle carriere pubbliche. Quindi il bando era illegittimo".

A quel punto che cosa accadde?

"Presentai lo stesso la domanda e fui poi convocata al Commissariato “per motivi di giustizia“. Lì mi aspettava un maresciallo che, un po’ mortificato, mi disse che doveva comunicarmi che la mia domanda era stata respinta. Gli chiesi di metterlo per iscritto e lui alla scrivania compilò un mezzo foglietto. Lo presi e lo portai subito al professor Mortati all’università. Lui lesse e mi chiese se ero andata da lui come professore o come avvocato. Come avvocato, risposi. Tutto cominciò da lì. Penso da tempo che se lui non fosse stato disponibile a essere il mio avvocato la storia non avrebbe avuto un seguito".

Lei teneva così tanto alla carriera prefettizia o voleva intraprendere anche una battaglia per i diritti?

"Avevo già consapevolezza dei diritti delle donne e volevo fare in modo che le mie coetanee e le donne del futuro non fossero discriminate. Fortunatamente il professor Mortati credette subito nella causa. Così cominciammo col ricorso al Consiglio di Stato che accettò la nostra tesi e mandò gli atti alla Corte costituzionale".

La sentenza dopo quanto tempo fu emessa?

"Due anni dopo, il 13 maggio 1960. Ovviamente la Corte era composta da soli uomini e penso che in tutto quel palazzo quel giorno io fossi l’unica donna".

Come continuò la sua vicenda lavorativa?

"Avrei potuto far annullare il concorso che però era già stato espletato in quei due anni. I vincitori stavano aspettando l’assegnazione delle sedi e io non volevo che fossero penalizzati ragazzi innocenti. E d’altra parte non avevo speranze di vincere, essendomi messa contro il ministero dell’Interno e lo stesso governo. Mortati inoltre mi comunicò che non mi avrebbe assistito in una eventuale richiesta annullamento del concorso. Intanto ne avevo vinto un altro e dopo poco presi servizio".

Da quel momento, però, le donne italiane potevano lavorare in prefettura.

"Certo. E anche nella carriera diplomatica. Questo era il fatto importante. Fu poi il Parlamento a completare il lavoro approvando nel 1963 una legge che aprì alle donne anche altre carriere pubbliche come la magistratura. Da lì la strada era ormai cominciata anche se per le donne militari si dovette attendere addirittura il 1999".

La sua battaglia è stata il portato di una consapevolezza che veniva anche da una educazione ricevuta in famiglia?

"Certamente. La mia famiglia, napoletana sia da parte di madre sia di padre, ha educato me e mio fratello nello stesso identico modo. Entrambi dovevamo studiare. A me sembrava normale e ho scoperto solo molto dopo di essere tra le pochissime ragazze che all’epoca potevano proseguire gli studi. Ma non solo. In famiglia avevamo esempi di donne e di coppie molto avanzati. Mia madre aveva tre sorelle, due delle quali fecero brillantissime carriere: una nel campo scolastico, diventando con due lauree ispettrice scolastica e poi fondando una scuola privata. La minore era una brillante concertista e docente al Conservatorio".

E oggi? A che punto siamo?

"La strada per colmare il divario di genere è stimata in 135 anni, il più recente valore del Global gender gap report, pubblicato dal World economic forum. Prima del Covid, il traguardo era fissato in ’soli’ 99 anni. Ma con la pandemia c’è stato un regresso generale nelle condizioni di vita al femminile, in particolare per la crisi economica e l’incremento delle violenze intrafamiliari".