Venerdì 26 Aprile 2024

Caso Raciti, semilibertà all'ultrà Micale. La vedova dell'ispettore: "E' una sconfitta"

Il Tribunale ha accolto le richieste dei legali del 30enne nell'ottica "del graduale reinserimento sociale"

Rosaria Palermo in lacrime abbraccia il figlio Daniele Natale Micale (Ansa)

Rosaria Palermo in lacrime abbraccia il figlio Daniele Natale Micale (Ansa)

Catania, 13 gennaio 2018 - Il tribunale di Catania ha concesso la semilibertà a Daniele Natale Micale, 30 anni, uno dei due ultrà del Catania condannati per la morte dell'ispettore della polizia di Stato Filippo Raciti, il 2 febbraio 2007, allo stadio Massimino durante il derby col Palermo. L'altro condannato era l'allora minorenne Antonino Speziale.

Micale, che dal novembre del 2012 sta scontando una pena definitiva di 11 anni di reclusione per omicidio preterintenzionale, ha già scontato oltre metà della condanna in carcere a Catania, ed ha un residuo pena di meno di 4 anni.

Il 30enne esce di carcere al mattino per andare a lavorare e rientra la sera, trascorrendo la notte in prigione. Il provvedimento accoglie la richiesta dei difensori di Micale, gli avvocati Eugenio De Luca e Matteo Bonaccorsi. 

Il Tribunale ha ritenuto di concedere la semilibertà nell'ottica "del graduale reinserimento sociale" al fine di consentire a Micale di "svolgere attività lavorativa come dipendente" di un supermercato. Resta ancora in carcere, invece Antonino Speziale, condannato a 8 anni per lo stesso reato.

LA VEDOVA - "Avverto il dolore della sconfitta, ma è la legge", dice all'Ansa la vedova di Raciti, Marisa Grasso. E continua: "Appena ho saputo ho sentito come un peso, maggiore amarezza e ingiustizia. Accetto la legge, ma non è giusto, il mio calvario continua: chi è condannato deve scontare tutta la condanna, altrimenti non c'è certezza della pena".

A oltre dieci anni dall'omicidio, la vedova ricostruisce il suo calvario: "Sono entrata in un'aula di giustizia cercando giustizia. Sono uscita da un incubo con una verità, una sentenza. Era importante per me, la famiglia e per tutti i poliziotti che rischiano la vita, come ha fatto mio marito. Sono orgogliosa di lui e della sua divisa, ma oggi sento amarezza e non giustizia". Anche i colleghi del marito sono delusi e amareggiati, racconta Marisa Grasso: "hanno voluto condividere con me la loro amarezza. Da cittadina dico che una condanna deve essere eseguita e una sentenza rispettata. Altrimenti si rischia di fare perdere la fiducia nella giustizia". "Adesso - si interroga - come farò a dire a mio figlio, che aveva sei anni quando è avvenuta la tragedia, che può incontrare per strada uno delle due persone condannate per la morte di suo padre, che è in permesso, invece di stare in carcere? Capirà che è la legge? Ma è giusta questa legge? Io mi sento sconfitta".