Venerdì 26 Aprile 2024

Aiutò Welby e gli altri a morire. "Io, medico, non ho sensi di colpa"

Intervista a Mario Riccio: "Ho il rimorso di non aver fatto abbastanza per tanti nelle stesse condizioni". Da oggi andrà in pensione

Dopo 36 anni oggi va in pensione. Il dottor Mario Riccio – ex responsabile di Anestesia e rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore, in provincia di Cremona – 16 anni fa staccò il respiratore a Piergiorgio Welby (venendo poi assolto dall’accusa di omicidio del consenziente), il primo paziente a sollevare la questione eutanasia in Italia. Da quel momento è diventato un’icona del fine vita, seguendo i casi Englaro, Fabo e accompagnando decine di individui nell’ultimo viaggio.

Mario Riccio, ex responsabile di Anestesia e rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore
Mario Riccio, ex responsabile di Anestesia e rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore

Lei seguì fino alla fine Welby, ma come fu il vostro primo contatto?

"Il caos mediatico era esploso, ma sentivo affermazioni confuse e sbagliate. Allora scrissi una mail all’indirizzo istituzionale di Marco Cappato, che era eurodeputato, mostrandogli il mio punto di vista. Dopo qualche giorno mi chiamò sul cellulare, pensavo fosse uno scherzo. Mi disse: ‘Lei è disponibile ad aiutare Piergiorgio? Le vorrebbe parlare. Non c’è nessun medico disponibile a interrompere la ventilazione’. Io risposi: bisogna farlo".

Non si è mai sentito in colpa per quello che ha fatto?

"Mi sentirei in colpa se non lo avessi fatto. A volte ho crisi di coscienza di non aver fatto abbastanza".

Quante persone ha aiutato a morire fino a oggi?

"Ne ho seguite una ventina durante l’iter lungo e complesso in Svizzera. Tre anni fa sono stato a Zurigo con Dignitas per vedere personalmente gli ultimi istanti, volevo sentire sulla pelle cosa significa".

Cosa le è rimasto più impresso di quei giorni?

"Conobbi il docente inglese Paul, col tumore al polmone, due giorni prima della morte: mi colpì la sua serenità. I momenti del suicidio, da quando si sedette poi bevve il barbiturico e si addormentò, furono estremamente rapidi. Gli chiesero se avesse voluto un cioccolatino per attenuare l’amarezza del farmaco e lui rifiutò. Quando deglutì fece un sorriso: ’Non è poi così amaro morire’. C’era un clima solenne, ma quando spirò l’atmosfera cambiò. Per 45 minuti rimanemmo così, in attesa del medico ufficiale che registrasse il decesso. Ne ho viste tante di persone morire, ma l’impatto del primo suicidio fu forte".

Poi ha aiutato Federico Carboni.

"È stato emblematico per me: l’ho seguito due anni prima di arrivare al suicidio assistito. Era un uomo ordinario, normale, ma aveva una determinazione che mi ha lasciato pietrificato".

Se sua figlia le chiedesse di morire, cosa farebbe?

"Non avrei dubbi, sarei ancor più convinto. So che mi costerebbe tanto, ma in medicina le scelte sono difficili".

Perché è convinto che prevalga il diritto del paziente di decidere sulle cure rispetto alla tutela della vita sempre e comunque?

"Il problema non è solo medico-clinico, ma filosofico-morale: il punto irrinunciabile è che la disponibilità del bene-vita è assoluto della persona. Uno può disporre della propria vita dal momento che non fa danno agli altri. Io da medico ho il dovere di portare a morte un paziente che me lo chiede".

In che senso?

"È stata la medicina che ha creato queste condizioni. Fabo, Welby o il paziente tumorale complicato hanno provato le strade che la medicina gli ha consentito e hanno fallito. Welby sarebbe morto 10 anni prima senza il ventilatore, Fabo sarebbe deceduto dopo l’incidente, i malati di tumore fino a 20 anni fa avevano diagnosi senza scampo. Oggi spesso la medicina risolve, ma altre volte non centra l’obiettivo e porta il paziente in una condizione peggiore rispetto a prima della malattia".

Se il giorno dopo che ha aiutato a morire un malato di Sla venisse scoperta la terapia?

"Questo non avviene oggi per domani: oggi per certe patologie non esiste una cura con una prospettiva di tempo applicabile al singolo paziente. Se arrivasse domani, sarei il primo a dire ‘aspettiamo’. Le sperimentazioni hanno orizzonti di 5-10 anni".

La Corte costituzionale ha coperto il vuoto lasciato dal Parlamento?

"No. Tra le condizioni che un paziente deve soddisfare per porre fine alla propria vita c’è che sia tenuto in vita dalle macchine. Questa restrizione esclude il 70% dei richiedenti ‘classici’, come i pazienti tumorali".

Cosa ha scritto nel suo biotestamento?

"Desidero che vengano interrotte le terapie dal momento in cui non sarò più capace di intender e volere. Non ritengo una conquista vivere, per forza, fino a 120 anni".