Venerdì 26 Aprile 2024

Mai più prodotti per pelle e capelli ‘normali’ Il colosso Unilever cancella la parola proibita

Sparisce dalla pubblicità di creme e balsami. La motivazione? Evitare discriminazioni. Uno studio: dà fastidio a sette su dieci

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di Viviana Ponchia

Il primo fu lo spazzino, diventato ‘operatore ecologico’ negli anni ‘80. New entry contemporanee sono "genitore 1" e "genitore 2" al posto di mamma e papà. In mezzo e in ordine sparso ecco l’immigrato trasformato in migrante, il collaboratore non docente (bidello), il paramedico (infermiere), l’operatore edile (muratore), il diversamente accasato (barbone). Quanto bene e quanti guai ha fatto il politically correct, sempre in bilico fra equità e ipocrisia, diplomazia e menzogna. Cultura del piagnisteo, dice qualcuno. Ma c’è chi – molto scorrettamente? – parla addirittura di malattia mentale se in America gli uomini sono costretti a uscire dagli ascensori occupati da una donna temendo che la svitata di turno li denunci per molestie se apprezzano le sue scarpe.

L’ultima vittima è la parola "normale", sacrificata in nome di tutti i sottorappresentati sui vasetti di crema e le bottiglie di balsamo per capelli. Il colosso Unilever, che spazia dall’alimentazione ai prodotti per l’igiene, ha deciso che il termine deve sparire dalla pubblicità dei suoi prodotti di bellezza per evitare discriminazioni e fare trionfare il cosiddetto "inclusive advertising". E già che c’era ha promesso di smettere di alterare digitalmente la forma dei corpi e il colore della pelle delle persone sulle confezioni, incentivando la presenza dei gruppi etnici più svariati. E’ la nuova strategia di "Positive beauty" fondata su uno studio scoraggiante condotto su 10 mila persone in nove nazioni.

La parola "normale" per descrivere pelle o capelli produce fastidio in sette individui su dieci. Il 56% degli intervistati pensa che l’industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa. E il 52% giura di valutare la posizione dell’azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti. Insomma, più che diventare belli i consumatori vogliono sentirsi meglio e un barattolo che indichi come "normale" un’abbagliante modella scandinava manca evidentemente l’obiettivo. Vincenzo Zeno Zencovich, professore di diritto comparato all’Università Roma Tre, ritiene che il politicamente corretto sia anacronistico e ridicolo come sostenere che Napoleone è stato un incapace a Waterloo perché non ha richiamato le truppe di Grouchy con una semplice telefonata dal cellulare. "Si tratta di una forma di dogmatismo – spiega – che usa tipici metodi illiberali: etichettare gli avversari, qualificarli come inadatti a una società civilizzata e meritevoli di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto".

Leonardo Marabini, esperto di comunicazione e marketing, parla di un’arma a doppio taglio e paragona il politically correct a un digestivo: "Aiuta a risolvere situazioni di empasse ma va usato con cautela altrimenti produce effetti devastanti". Come per esempio rinunciare a dire le cose come stanno e dare del videoleso a un cieco, "che non è un insulto ma una condizione". Risultato? Le crisi di rigetto e la riscossa del politicamente scorretto che imperversa in qualsiasi talk show. "In tempi di menzogna universale dire la verità diventa un atto rivoluzionario", diceva George Orwell. Secondo Marabini in Italia gli unici rivoluzionari sono gli operatori telefonici, mentre le scorrettezze legalizzate della pubblicità comparativa vengono ignorate dalla maggior parte delle aziende per amore di compromesso. Mettere al bando gli eufemismi tuttavia può fare un gran bene come dimostra la rivalità tra Coca-Cola e Pepsi-Cola, che da decenni si scannano allegramente regalandoci anche qualche sorriso.