Giovedì 25 Aprile 2024

Lo ius soli a chi fa grande il nostro sport

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Doriano

Rabotti

Lo ius sportivo invocato dal presidente del Coni Giovanni Malagò in realtà esiste già nei fatti. E proprio l’Italia dell’atletica lo sta dimostrando in modo evidente. Fate una prova, quando arrivano gli azzurri ai microfoni: chiudete gli occhi e ascoltate le loro parole.

Sentirete accenti lombardi, veneti, romani, siciliani, e riaprendoli vedrete colossi d’ebano che sembrano venuti dalla Nubia, lineamenti nordafricani o sudamericani.

Scorrendo l’elenco dei convocati dalla Federatletica a Tokyo si scopre che sono più della metà i ragazzi con cognomi che rimandano ad altri paesi. Eppure cantano l’inno di Mameli e si sentono italianissimi.

In effetti il vero problema forse è il ritardo della politica nei confronti della società, non solo quella sportiva: probabilmente non ha neanche più senso parlare di italiani di seconda generazione, perché se sono fluide le identità sessuali, figuriamoci quelle nazionali in un mondo che la globalizzazione sta rimescolando ogni giorno ormai da decenni.

E’ probabile che Malagò si riferisse al rischio di perdere ragazzi che mostrano il loro talento ancora prima di diventare maggiorenni, ma non potendo essere schierati con la maglia azzurra magari possono scegliere di rispondere alla chiamata degli altri paesi che compongono la loro identità.

E adesso fate un’altra prova: se Marcell Jacobs avesse dovuto scegliere di correre per gli Usa, dove è nato, che cosa ci saremmo persi?