La débâcle in Rai ridimensiona Conte Ascesa e caduta di un leader mancato

Il suo "sciopero della fama" è l’ultimo paradosso dei Cinquestelle. Emarginato nel Movimento, problema per il Pd

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di Pierfrancesco

De Robertis

Lo sciopero della fama minacciato due sere fa in tv dall’avvocato Giuseppe Conte è il controsenso più plastico dei Cinquestelle, l’ultima caduta nel viale delle contraddizioni e delle promesse tradite. "Non andremo mai più nella tv pubblica", aveva tuonato il sedicente capo dei Cinquestelle in risposta alla spartizione a sua insaputa che il dg della Rai Carlo Fuortes aveva appena varato con l’accordo di palazzo Chigi, di tutti i partiti presenti in parlamento e probabilmente di una buona parte degli stessi Cinquestelle. Ma il silenzio di tomba e l’imbarazzo con il quale il Movimento ha accolto lo spericolato testa-coda del capo ha colorato con un che di beffardo le ultime mosse di un politico che non aveva appena protestato contro la lottizzazione quanto di non essere stato invitato alla lottizzazione stessa. Come quel tale che trattò male il ristoratore perché la pietanza era pessima e in più la porzione era piccola. A sua insaputa, Giuseppe Conte ha così dipinto perfidamente la sua parabola di un leader mancato, un uomo che in poco più di nove mesi è passato dal sognare il Quirinale, dal vedersi salvatore della patria tanto da apparire ogni tre per due a reti unificate a dire "concediamo questo, concediamo quest’altro", dalle esagerate parate casaliniane a Villa Pamphilii, per finire a doversi incatenare fuori dal palazzo per non aver ricevuto in pasto neppure un osso da rosicchiare nella madre di tutte le spartizioni partitocratiche. Beffa nelle beffe, perché come Conte sa bene la Rai è per antonomasia la cartina di tornasole del potere italico, e quando ti fanno fuori da viale Mazzini significa che stai per essere accompagnato alla porta.

La vicenda Rai, la reazione scomposta di Conte e la sua implicita ammissione di non controllare il partito di cui sarebbe il capo rappresentano la veloce caducità della politica modello terza repubblica, riproducendo uno schema già osservato nel passato anche recente, quello delle leadership mordi e fuggi, viaggi nell’iperuranio del potere improvvisi e senza ritorno. La prima repubblica era famosa per le sue morti e resurrezioni, e Amintore Fanfani fu ribattezzato "il rieccolo"; la seconda no, ha visto soprattutto leader che come nel sogno di Icaro hanno accarezzato lo zenith assoluto ma che per alterne fortune o semplicemente propria inconsistenza si sono poi sciolti come neve al sole. Prima di Conte era toccato a Mario Monti poi a Matteo Renzi, senza scordare il luccichìo del Salvini pre-Papeete molto distante dagli affanni post-amministrative.

Conte era stato l’uomo che aveva incarnato il sogno di tutti i politici, quello che aveva vinto la lotteria di capodanno del Palazzo e che mostrando capacità per la verità non comuni aveva avuto l’Italia a suoi piedi. Da affermato professore universitario e civilista come ce ne sono migliaia alle cene con la Merkel, alle pacche sulle spalle con Trump di cui era l’amico "Giuseppi". Se pure le doti migliori non erano il parlare forbito e l’inglese fluente quanto la funambolica spregiudicatezza che l’hanno portato a essere l’undicesimo premier per durata nella storia della repubblica, a capo di due governi di segno opposto e a un pugno di responsabili da un fantomatico Conte III. La sceneggiatura l’avrebe decisa lui al momento. Senza contare l’ultimo paradosso, quello di guidare un movimento del vaffa, lui, l’uomo della pochette elegante, massima espressione di un ceto altoborghese simbolo di molti poteri.

Ora la caduta agli Inferi di Conte è un problema. Non per Di Maio, che certo non piangerà, forse neppure per il M5S di cui presto si perderanno le tracce, quanto per il Pd, che proprio a Conte si era legato. Proverbiale il suo rapporto con Bettini, salda la sua intesa con Letta. Sono loro, oltre a Giuseppi, a doversi proeccupare.