Mercoledì 24 Aprile 2024

Italia-Afghanistan, ultimo atto Il Tricolore non sventola più

Il contingente lascia Herat dopo quasi vent’anni. Il ministro Guerini: "Continueremo ad aiutarli"

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dall’inviato

Alessandro Farruggia

HERAT (Afghanistan)

Afghanistan, addio. Dopo l’impegno sincero di tanti soldati e non pochi civili, gli 8,8 miliardi spesi, le 54 vittime e 625 feriti italiani, l’Italia ammaina la bandiera a torna a casa. Da qui sono passati 50mila soldati italiani, uomini e donne che hanno fatto il possibile, e oltre. Ma l’Afghanistan si conferma irredimibile dal suo destino di essere la tomba degli imperi.

Era il gennaio del 2002 quando i primi soldati italiani sono giunti a Kabul. I talebani erano in fuga. Sembrava l’alba di un nuovo mondo. E gli afghani, increduli, credevano nella rinascita e nella pace. Diciannove anni e 5 mesi dopo dopo le illusioni sono naufragate e il nostro contingente segue l’esempio degli Stati Uniti (che hanno già fatto rientrare la metà delle truppe) e degli altri Paesi occidentali impegnati sul campo, e prende atto che l’Afghanistan non si può stabilizzare con scarponi stranieri sul terreno, che la permanenza indefinita non era sostenibile né economicamente né politicamente e ha avviato un difficile ritiro, iniziato a maggio e che si concluderà entro luglio: la data è segreta. Sarà un poderoso ponte aereo.

"Ogni giorno – spiega il generale Luciano Portolano, comandante del Coi (Comando Operativo di vertice Interforze) – decolleranno 5 o 6 grandi Iliyushin, poi arriveranno i giganteschi Antonov per trasportare gli elicotteri". Partiti i soldati occidentali, gli afghani saranno soli – a parte un sostanzioso contributo finanziario per pagare le forze di sicurezza senza il quale Kabul cadrebbe in pochi mesi – a fronteggiare una insorgenza talebana e non solo (Isisal Qaeda) che, distretto dopo distretto, si avvicina alle città e che minaccia già nel 2022 di tentare la presa del potere dopo aver raggiunto a Doha l’intesa con gli occidentali per il loro ritiro.

La sola speranza che questo non accada è un accordo politico con l’attuale governo di Kabul – sempre più impopolare – per un governo di transizione che porti a elezioni aperte anche ai talebani, che probabilmente le vincerebbero. Ma la tentazione dei talebani per la spallata cresce.

Ad Herat – dove ha sede il grosso del nostro contingente che fino a maggio contava 895 uomini ma arrivò a superare le 4.200 unità nel 2011 – ieri è giunto il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Per uno storico ammainabandiera. "In Afghanistan – dice Guerini – l’Italia ha fatto il suo dovere dall’inizio. Lasciamo dopo aver ottenuti molti risultati sia sul fronte della sicurezza che della promozione della società civile afghana. Abbiamo addestrato 20mila soldati afghani, realizzato 2.300 progetti di cooperazione, abbiamo lavorato per migliore l’accesso all’istruzione e la condizione delle donne. Dobbiamo chiederci come sarebbe stato l’Afghanistan senza questi venti anni di presenza".

"Questo processo – ha aggiunto il ministro della Difesa – richiederà ancora tempo e i nemici della pace cercheranno ogni occasione per minarlo. Negherei l’evidenza se dicessi che sarà tutto tranquillo. Adesso tutta la comunità internazionale dovrà fare la sua parte, per supportare gli afghani. Quanto a noi, come faranno altri Paesi, porteremo in Italia 760 tra traduttori e altri collaboratori afghani, che temono ritorsioni talebane, e saremo a fianco degli afghani politicamente ed economicamente".

"Adesso – osserva il generale Beniamino Vergori, comandante della Folgore e Tac West, il comando di Herat – il futuro di questo splendido Paese è nelle mani degli afghani". Auguri.