Lunedì 29 Aprile 2024

Bertolucci: "Io e Panatta, inseparabili gemelli diversi. Indicava le ragazze e ci usciva"

Al traguardo dei 70 anni con lo spirito di un ragazzo: "La Davis del ’76 è stato il coronamento di un sogno. Eravamo i Beatles del tennis. Mi ritirai perché non volevo più girare il mondo. Sono sempre Pasta Kid, amo la cucina casereccia: ribollita e pappa al pomodoro"

L'ex tennista Paolo Bertolucci, 70 anni martedì 3 agosto

L'ex tennista Paolo Bertolucci, 70 anni martedì 3 agosto

Nel nostro immaginario Paolo Bertolucci non ha quei 70 anni che compie martedì prossimo. Per noi è l’eterno ragazzo pieno di classe e di qualche chilo in più, che ci ha fatto sognare nella Coppa Davis vinta tra mille polemiche non sportive nel 1976 e che regalava giocate sopraffine su tutti i campi di tennis del mondo. Panatta-Bertolucci: l’uno il completamento dell’altro. Quell’alchimia fatta di amicizia ma anche di solenni litigate, di un rapporto che ha sempre resistito fuori dal campo. Nato nel 1962 quando Paolo (di un anno più giovane) e Adriano incrociano per la prima volta la loro strada in un torneo giovanile a Cesenatico. Bertolucci ha avuto come giocattolo la racchetta, è un bambino prodigio forgiato da suo padre Gino, maestro di tennis sempre elegante, vestito di bianco e con i pantaloni di gabardina al Circolo Roma di Forte dei Marmi. Dove lo nota Giorgio Neri all’epoca presidente della Federtennis che lo porta alla Virtus Bologna tra le perplessità di mamma Maria Rosa. L’amicizia vera tra Paolo e Adriano nascerà due anni dopo nel centro federale a Formia diretto da Mario Belardinelli, il loro secondo padre e che fu il maestro di tennis del Duce a villa Torlonia. Un college dove divideranno la camera oltre che i sogni.

Come è stato, Paolo, il suo rapporto con Panatta?

"Abbiamo litigato un sacco di volte dentro e fuori dal campo ma è una persona talmente buona che non puoi non volergli bene. L’amicizia si è cementata dalle nostre reciproche debolezze. Ci siamo sorretti a vicenda: lui era troppo bello, io troppo normale. Siamo diversi anche di estrazione perché lui proviene da una famiglia socialista, io sono di fede liberale. Mi piaceva Malagodi. Uno schema che si rifletteva anche in campo: io giocavo a destra, lui a sinistra".

Compagni di doppio per oltre un decennio, testimoni di nozze l’uno dell’altro. Il destino vi ha accomunati anche nella destinazione degli ultimi anni visto che vi ha portati in Veneto: Paolo a Verona, Adriano a Treviso.

"Ci siamo completati e abbiamo avuto soddisfazioni che ci hanno realizzato sia nello sport che fuori del campo. Una volta a Londra nel presentarci dissero che Adriano era uno degli uomini più affascinanti d’Europa e io ero quello più basso. Nel nostro tipo di giocare io ero quello che preparava e lui piazzava il punto vincente. Che non era solo la sua celebrata “veronica“ ma anche il colpo del ciuffo. Prima di battere si spostava i capelli con la mano e le donne impazzivano".

Come quella volta in Spagna.

"Stiamo giocando e lui mi dice. La vedi quella in tribuna, stasera esce con me. Io gli rispondo di concentrarsi sul gioco e cercare di vincere. La sera la signora, che era sposata con figli, lo raggiunse in albergo. Il problema è che arrivò il marito e ci volle tutta l’abilità di Adriano per districarsi senza conseguenze da quella situazione. Anche Bjorn Borg piaceva molto alle donne, ma lo costringemmo a rifare il guardaroba perché all’inizio girava con jeans, maglietta e degli improponibili zoccoli svedesi".

Torniamo al tennis. Anche la decisione di giocare il doppio decisivo della Davis vinta nel 1976 a Santiago con la maglietta rossa per fare un dispetto al dittatore cileno Pinochet è nata da un’idea di Adriano che l’ha convinto.

"Io all’inizio credevo che fosse un rischio troppo grosso. C’era un clima molto pesante ma volevamo dare un segnale forte dopo aver deciso giustamente di giocare. Fu il coronamento di un grande cammino. Noi due, con Barazzutti e Zugarelli che completavano la squadra, eravamo i Beatles: Adriano come John Lennon, io ero Paul McCartney, Corrado come George Harrison e Tonino il Ringo Starr. Eravamo così diversi eppure creammo un gruppo granitico nel tennis che è uno sport di forte individualismo".

Nei settant’anni di Paolo Bertolucci un ruolo importante lo gioca anche il cibo. Oltre che ‘Braccio d’oro’ la chiamavano ‘Pasta Kid’.

"Il nomignolo me l’ha affibbiato Bud Collins, giornalista molto popolare del Boston Globe. Mi piacque, mi specchiavo in quella definizione e infatti l’ho scelto come titolo della mia autobiografia. A quel tempo ero davvero goloso e spesso capitava che per giorni bevevo solo dei litri di spremuta di pompelmo per perdere chili, per cui ho sofferto la fame. Arrivai a proporre a Belardinelli che a ogni vittoria di partite in Coppa Davis volevo un piatto di pasta e fagioli come premio. A me piace la cucina semplice e casereccia e ho una passione particolare per la ribollita e la pappa al pomodoro. Proprio a Boston invece io e Adriano facemmo la più grossa scorpacciata di aragoste. Memorabile".

Paolo Bertolucci, che è arrivato a toccare il dodicesimo posto nella classifica mondiale nel 1983, a 32 anni, decide di smettere. Perché?

"Incisero due fattori: il dolore e la noia. Avevo ormai la schiena e le gambe a pezzi. Ero stufo di preparare borse e di andare a giocare in giro per il mondo. Il tennis romantico era ormai al tramonto e un’esistenza così era davvero pesante. La decisione la presi nel 1982 e programmai l’ultimo anno in piena spensieratezza. Abbinando oltre al gioco anche la buona cucina. Un viaggio in cui toccai tutta l’Italia per giocare e gustare le prelibatezze dei migliori ristoranti. Ingrassai oltre undici chili. Dal giorno in cui ho detto stop non ho più giocato".

Qualcuno ha ipotizzato che nella sua decisione abbia inciso l’indolenza.

"Lo smentisco categoricamente. Io ho sempre dato tutto e avevo due punti di forza che erano il rovescio e la velocità dei piedi nei primi tre metri. Non ero un giocatore da lunga distanza, la mia autonomia atletica era abbastanza limitata per questo mi sono espresso meglio nel doppio".

Ora si divide tra Verona e la sua mai dimenticata Forte dei Marmi.

"Abito a Verona con Lilli che è la mia compagna da undici anni. Lei si occupa di moda, io faccio il commentatore per Sky Sport. Ci interessa molto l’arte contemporanea. Due mesi a Forte dei Marmi non ce li toglie nessuno".

Che cosa si attende di regalo per i suoi settant’anni?

"Un bel regalo me lo hanno già fatto Matteo Berrettini e tutti i tennisti della nouvelle vague italiana che mi hanno fatto tornare indietro nel tempo e rivivere sensazioni che avevo dimenticato. Ho la fortuna di raccontare da tempo le imprese di Federer, Djokovic, Nadal ma quando ci sono nel mezzo gli azzurri è un’altra cosa. L’emozione di Berrettini in finale a Wimbledon è stata fantastica. Nelle ore della vigilia – conclude Bertolucci – ho riavvolto il nastro, sono tornato alle attese prima delle nostre grandi partite. Ho avuto quella scarica di adrenalina che avevo quando giocavo e che ti fa restare sempre giovane".