Mercoledì 24 Aprile 2024

Il tema dei salari non può restare un tabù

Raffaele

Marmo

Come nelle migliori stagioni della nostra storia, la crescita economica ha determinato benefici per tutti, a cominciare da chi più direttamente vi ha contribuito. Gli anni Sessanta, gli anni del miracolo italiano, sono esemplari da questo punto di vista. Dalla piccola impresa al grande gruppo industriale, la cavalcata del Pil ha trovato il sindacato pronto a trasformare (giustamente) il consistente aumento della produttività in rivendicazione salariale diffusa. E le maggiori e migliori retribuzioni dei lavoratori hanno, a loro volta, garantito nuovo carburante ai consumi e alla modernizzazione del Paese.

Certo, poi, sono arrivati gli anni Settanta, quando, in piena crisi energetica e dentro una recessione conclamata si è proclamato e praticato il principio che il salario fosse una variabile indipendente, prima che Luciano Lama con la sua onestà intellettuale compisse la svolta dell’Eur. Anche se solo negli anni Ottanta la fine della scala mobile, per merito di Bettino Craxi e Gianni De Michelis, mise fine alla perversa spirale prezzi-salari.

Ma oggi, consapevoli di questa storia e con alle spalle qualche decennio di globalizzazione liberista nel paradigma della competizione mondiale anche sul costo del lavoro, il sindacato italiano non può non porsi il problema della necessità di un recupero e di un rilancio del potere salariale ad ampio raggio.

E, per non commettere gli errori del passato, sarebbe utile che l’operazione passasse non da un indistinto rivendicazionismo generalizzato (che, comunque, neanche si scorge), ma dalla contrattazione collettiva aziendale e territoriale, perché è in quei contesti che la trasformazione della produttività in aumenti salariali non produce nuove e pericolose spirali.

Meglio ancora, per tutti, se il governo facesse la sua parte dettassando gli aumenti. In un circolo virtuoso che possiamo e dobbiamo innescare.