Martedì 30 Aprile 2024

È a rischio l’identità del Paese "Ai ragazzi servono ragioni forti"

L’ex direttore del Censis Giuseppe Roma: per ripartire il merito non va proclamato ma praticato

di Viviana Ponchia

I nuovi emigranti italiani fanno l’università a Londra a vent’anni, a sessanta giocano a scopa a Lisbona. E non hanno intenzione di tornare, rendendo preoccupante il saldo fra chi entra e chi esce. Eppure questo è un Paese accogliente, dice il presidente Mattarella. E deve coltivare le sue tradizioni aiutando chi è partito a fare un passo indietro. Ma come? Il sociologo Giuseppe Roma, già direttore del Censis, non crede che l’altrove sia il paradiso. "Però è sicuramente un posto più organizzato, dove progettare la vita non diventa una corsa a ostacoli".

Quindi li lasciamo andare, giovani e vecchi, e ci inabissiamo sempre di più?

"Non ha senso convincerli a restare senza portare ragioni forti, che non abbiamo. Che questo sia un Paese accogliente è fuori discussione. Alta qualità della vita e dei rapporti umani, attenzione verso il prossimo. Resta il fatto che siamo sempre di meno. E che dell’intraprendenza dei nostri ragazzi, dei sacrifici per la loro istruzione, godranno altri. Sotto lo splendore da brochure è tutto complicato. Abbiamo la dieta mediterranea, ma non quella burocratica. Non pensiamo alla cura delle persone nei passaggi fondamentali della vita. I giovani si laureano, ma non trovano lavoro. Il progetto passa così paradossalmente nelle mani degli anziani: un pensionato con una casa di proprietà e qualche soldo da parte ha ancora due decenni da giocarsi alla grande".

Colpa di mamma e papà, che farebbero meglio a tenerseli a casa?

"La famiglia, che per fortuna da noi è ancora elemento di equilibrio e protezione, giustamente ha paura. E spesso manda un figlio a studiare all’estero come una specie di investimento, per non averlo sul groppone tutta la vita. Ma è solo l’ultimo anello di un sistema che non vuole scommettere sui giovani. Nelle università americane il venerdì sera può capitare di andare a bere una birra con due premi Nobel, in Italia gli atenei sono magnifici ma prigionieri della cultura del distacco. Chi ha il potere se lo tiene stretto, non si crea il passaggio di testimone".

La laurea e la pensione: sono questi gli snodi delicati?

"No. La prima tappa è dentro l’università. I ragazzi vorrebbero essere trattati da individui e non sentirsi allo sbando. In questo i nostri atenei, ottimi a livello di contenuti, sono un disastro. Dappertutto, all’estero, una matricola si sente guidata. Gli spiegano dove andare a dormire, un metodo di studio. Il secondo passaggio è trovare un lavoro. In Italia ti laurei bene, hai mercato ma non ti cerca nessuno. Oggi esiste Linkedin però il vero arruolamento lo fanno ancora il passaparola e la raccomandazione. Non siamo riusciti a mettere in piedi una struttura organizzativa dedicata a questo. In più non cresciamo da 20 anni e in un’economia stagnante le possibilità sono sempre meno".

Così tanto vale partire

"Verso luoghi dove il merito non è proclamato ma praticato e le aziende vanno in cerca dei migliori. Rinunciando per necessità al famoso Paese accogliente, alla famiglia e agli spaghetti in cambio di uno stipendio spesso più alto. E senza anni di vassallaggio".

E il pensionato a Lisbona?

"C’è la convenienza fiscale, il gruppo di amici italiani. Capisco anche il cinquantenne senza legami che torna i Italia per nostalgia rassegnandosi a condizioni di vita peggiori: perdo posizioni però vado in bicicletta sui colli. Ma sono pochi".

Andare all’estero costa.

"Non è una scelta riservata ai figli di papà perché c’è anche chi va fare il barista. Ed è felice di trovare un mondo chiaro e trasparente. Ti pagano poco, ma sai cosa devi fare e quel poco è regolare".

Un figlio barista non è il sogno di tutti i genitori

"Ecco, ci frega anche questo. Un certo classismo duro a morire: non sporcarti le mani di grasso altrimenti non trovi la fidanzata. Il figlio di un mio amico ambasciatore in Olanda fa il meccanico e sono tutti contenti".