Martedì 17 Giugno 2025
ENRICO BRIZZI
Cronaca

Il Cavaliere, che grande show: arrivò lui e fu abolita la noia

L’autore di ‘Vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio’: passammo senza rimedio dall’io al noi. Non saremo mai d’accordo sull’ex premier Berlusconi ma uno così non c’era stato prima e non ci sarà più

Il Cavaliere, che grande show: arrivò lui e fu abolita la noia

Incredulità. È questa la sensazione dominante nell’assistere ai funerali di Stato per Silvio Berlusconi. Del grande spettacolo che fu la sua vita, il Cavaliere è stato autore e regista, produttore e divo, mettendosi sempre in gioco in prima persona; la folla accorsa in suo nome nella superba scenografia di piazza Duomo appare rassegnata all’idea che, questa volta, non ci potrà essere nessun colpo di teatro.

Silvio Berlusconi
Silvio Berlusconi

Di fronte alla morte siamo tutti uguali, ed è sacrosanto che nel giorno dell’omaggio funebre la pietà umana prevalga sulle acredini politiche; stonano le assenze di alcuni leader politici nazionali, e sembrano provenire da un tempo remotissimo le immagini dei leader democristiani e socialisti, di Spadolini e persino di Almirante che si presentano alle Botteghe Oscure per onorare la salma di Enrico Berlinguer.

"Non sono qui per farmi pubblicità ma per salutare un uomo onesto" dichiarò in quell’occasione il leader missino; "Mi si nota di più se vado o non vado?" devono essersi invece domandati Conte e chi, come lui, ha fatto sapere con ampio anticipo che non avrebbe presenziato. La Prima repubblica aveva un galateo ignoto alla Seconda, ed è paradossale considerare che il primattore di quest’ultima, lo sdoganatore dei personalismi, degli aneddoti e delle barzellette in sede istituzionale, è stato proprio l’uomo al quale oggi si porge l’estremo saluto; con la sua discesa in campo, a dieci anni esatti dai funerali di Berlinguer, di uno stile inaudito e sorprendente, che ha segnato il proprio successo politico ma, al contempo, il passaggio senza rimedio dal ‘noi’ all’’io’ che costituisce il marchio di fabbrica del populismo.

Un punto sul quale ammiratori e detrattori sembrano concordare è che un uomo così non c’era mai stato prima, non c’è stato dopo e con ogni probabilità non ci sarà mai più. Ecco perché, parlando di lui, ogni precedente risulta irrimediabilmente fuori scala. Limitarsi a celebrarlo come il più longevo presidente del Consiglio in un Paese, il nostro, la cui dieta si fonda sulla crisi di governo, non basta a dar conto della sua popolarità, bastevole a ribaltare tutti i parametri ai quali la gestione della cosa pubblica si era improntata sino al suo avvento. Quanto alle innumerevoli vicende giudiziarie, ne trasse a lungo maggior forza, come può capitare solo laddove l’elettorato nutre scarsa fiducia nella Giustizia (resterebbe da interrogarsi come questa sia passata tanto in fretta dai fasti di Mani pulite, con Di Pietro eroe nazionale, a entità bizantina di cui diffidare).

Appare sin troppo ovvio, d’altronde, sottolineare che fu un personaggio divisivo, come se esistessero uomini di potere capaci di parlare al cuore di tutti e di ciascuno. Fu molto di più: eccessivo, esibizionista, sfrontato sino al punto di raccontare la fola della nipotina di Mubarak. A far riflettere, piuttosto, è la tiepida partecipazione alle esequie dei leader esteri e il fatto che ai quattro angoli del mondo gli articoli sulla sua dipartita contenessero riferimenti al famigerato ‘bunga bunga’: più Berlusconi riempiva la scena italiana, più quella si faceva periferica a livello internazionale, come se le suggestioni combinate dei telequiz con Mike Bongiorno e di Drive In, delle vittorie del Milan e degli appelli con toni da crociata per fermare i comunisti risultassero intraducibili all’estero, ridotti a semplice folklore.

D’altronde i suoi amici di lunga data – Bush, Putin, Erdogan – non godono, come si suol dire, di buona stampa. Per un quarto di secolo l’Italia è stata appesa a un pendolo. Ad ogni governo di Romano Prodi – colpito dal lutto, per un’ineffabile trama del destino, in questi stessi giorni – ci si riavvicinava all’Europa; con ogni ritorno in sella del Cavaliere si ripristinava una subliminale forma di autarchia, in cui il Paese si guardava allo specchio soddisfatto e noncurante degli sguardi arcigni delle nazioni vicine.

A condannare politicamente l’imprenditore di enorme successo è stata proprio l’incapacità di far quadrare i conti: non si è visto il milione di posti di lavoro ma tanto precariato, e quando il termometro dello spread ha raggiunto livelli allarmanti, è stata la fine. A differenza del suo antico referente Bettino Craxi, tuttavia, il Silvio non ha conosciuto l’onta del linciaggio, né ha assistito al crollo di un sistema, anzi se ne è andato come numero uno di una forza governativa, per quanto ridotta a semplice socia di minoranza del governo di Giorgia Meloni. Il suo è stato un lungo addio, per dirlo alla Chandler, un viale del tramonto miliardario ma pur sempre malinconico: una nuova compagna, poi un’altra ancora, il Monza al posto del Milan, da ultimo le note sfavorevoli sulla nuova presidente del Consiglio mostrate a favore di telecamere, un dispetto da divo rancoroso, incapace di farsi da parte.

Se ci avessero domandato qualche lustro addietro come avremmo immaginato la sua uscita di scena definitiva, qualcuno avrebbe immaginato esequie di fasto imperiale con processioni di carrozze e teste coronate, e qualcun altro l’avrebbe visto volentieri in esilio a Sant’Elena; quasi nessuno avrebbe ritenuto plausibile che Berlusconi se ne potesse andare come se ne vanno tutti i cristiani. Le luci della ribalta si sono spente, e di fronte al sipario ormai chiuso restiamo noi; possiamo andare sicuri che non ci metteremo mai d’accordo sulla sua figura, ma ci prende indistintamente un senso di vertigine nel considerare che, all’improvviso, tutto appare sobrio e silenzioso. "Certo che con lui – già si sospira – non ci si annoiava mai".