A volte i capitani devono cedere la fascia

Gabriele

Canè

Se il mestiere di leader è difficile, quello di equilibrista lo è altrettanto. Anzi, di più. Salvini in passato ha dimostrato di saper fare il primo riuscendo a dilatare i confini della Padania fino a Pantelleria. Ma oggi rientra malconcio nei suoi territori, e si scopre addosso vecchie ferite e i lividi recenti di chi nei lunghi (per lui) mesi del governo Draghi ha cercato di conciliare l’ubbidienza al premier, con la necessità di non lasciare tutto il vantaggio della disubbidienza a Giorgia Meloni che dall’opposizione scalava le classifiche di gradimento.

La percentuale che i primi dati gli attribuiscono è uno schiaffo, il risultato forse inevitabile della riproposizione di temi un po’ usurati, di discese e risalite su dossier delicati come la lotta alla pandemia o all’amico-nemico Putin. Certo, l’inevitabile raffronto con le elezioni del 2018 o ancora più con le europee del 2019, inchiodano il Capitano a un ruolo di sconfitto, con l’aggravante di aver fatto forse ancora peggio di quanto molti analisti prevedevano. L’esito del 25 settembre non potrà quindi non avere effetti nel partito. Fatti loro, si potrebbe dire. Vero. Sempre che non diventino fatti nostri in un eventuale gabinetto di centro destra in cui lo scettro del comando è ora saldamente nelle mani di Lady Giorgia.

Da oggi, infatti, le gerarchie dei sondaggi diventano seggi, programmi, ministeri. Domanda. Riuscirà Salvini a respingere gli inevitabili assalti interni e in una acrobazia altrettanto difficile: fare un passo indietro, pretendere quello che la soglia raggiunta (dopo il 17 e il 34) consente, cioè una oggettiva collocazione comprimaria per la Lega? L’istinto gli consiglierebbe probabilmente lo scontro. Il realismo lo invita alla prudenza. Il risultato lo colloca nella coalizione vincente. E nelle squadre, quando le cose vanno bene, anche chi è capitano può (o deve) adattarsi a cedere la fascia.