Giovedì 25 Aprile 2024

Cinquanta sfumature di Mancini: "Manca un 10, ma il talento c'è"

Dal calcio all'Italia Roberto si racconta per i suoi 50 anni: "Mi piaceva fare i colpi di tacco, ma quando vedo farlo a un mio giocatore mi arrabbio, anche se ho i brividi"

Roberto Mancini (Ansa)

Roberto Mancini (Ansa)

Roma, 26 novembre 2014 - Il 'Mancio' compie cinquant'anni. Accadrà domani, giovedì, e quasi non ci crede, forse perchè il tempo che passa ha deciso di cavalcarlo sin da bambino invece che lasciarlo scorrere. Dal campo alla panchina, passando di trofeo in trofeo. Dall'esordio nel 1981 con il Bologna fino al ritorno all'Inter, così tutto d'un fiato, con la naturalezza di una giocata impossibile per molti, tranne che per quelli come lui, Totti, Baggio, Del Piero: i numero 10.

Lei ha indossato la maglia numero 10 per la prima volta all'eta di sei anni. Quel numero magico è sempre stato il simbolo di un calcio nel quale si identifica il Paese. Il fatto che si sia un po' perso il 10 è la metafora della crisi italiana?

«Vero. Viviamo un momento storico nel quale il numero 10 manca un po' ovunque. E' un periodo difficile, ma a noi italiani l'ingegno tipico del numero 10 non è mai mancato. Bisogna ritrovarlo in fretta per risollevare il Paese e, nel calcio, affinchè la gente torni negli stadi a divertirsi».

Il premier Matteo Renzi secondo lei è un numero 10?

«Non lo so... Ma spero tanto che lo sia».

Il colpo di tacco era la griffe del Mancini giocatore: due gol epici contro la Roma e il Parma, tra l'altro. Il Mancini tecnico però si arrabbia per i colpi di tacco. Come si cambia con gli anni...

«Mi arrabbio perchè lo devi saper fare. C'è differenza tra il colpo di tacco qualsiasi e quello di un fuoriclasse. In campo è una goduria farlo, da allenatore preferisci non vederlo perchè può essere rischioso. A me è capitato di prendermi qualche parolina' dai compagni per aver fatto partire il contropiede avversario con un tacco...» Quindi lo aboliamo? «No, confesso: anche se non lo do a vedere, se ne arriva uno azzeccato mi provoca ancora i brividi».

Ha parlato di ingegno italiano. Può essere questo il colpo di tacco che risolleva l'Italia?

«No, è l'entusiasmo. Io credo che la gente debba ritrovarlo nella possibilità di spendere quanto guadagna in proporzione alla fatica».

Cioè?

«Il lavoro duro non spaventa gli italiani, ma se poi paghi tasse su tasse e non vedi i frutti dei tuoi sforzi, in un Paese che va sempre peggio, allora è impossibile trovare nuovi stimoli. Al sacrificio, un governo dovrebbe corrispondere una vita decorosa, poter comprare la casa, costruire il futuro dei figli. Non mi sembrano lussi ma necessità basilari».

A proposito di spendere. Lei in poco tempo è passato dal calcio dello sceicco a Manchester alla spending review della Serie A e dell'Inter. A cinquant'anni come si rimette in discussione il Mancini che non può comprare gli Aguero o gli Yaya Tourè?

«Torniamo alle cose di prima: con l'ingegno e il lavoro duro, qualità tipicamente italiane. Eppoi competenza, mentalità e capacità di pianificazione possono fare la differenza. Nel calcio succede e succederà ancora. E' vero, non si può comprare Messi, ma possiamo prendere qualche giovane avendo intuito sul talento che sta nascendo, lavorarci sopra e ritrovarselo forte dopo poco tempo. Riuscire a fare bene con quello che hai a disposizione è nel dna degli italiani e può darti una soddisfazione addirittura superiore».

Inghilterra, Turchia, lei ha vissuto contesti sociali differenti.

«Forse siamo più vicini ai turchi e meno agli inglesi. In Inghilterra rispetto' è una parola chiave, delle leggi, ma anche del prossimo. Non sono meglio di noi, sia chiaro. L'italiano ha qualità incredibili e la rabbia è proprio questa: il Paese affonda nonostante sia indiscutibile il nostro talento, il valore, lo spirito di iniziativa. E' da non credere che il posto nel quale viviamo oggi sia l'Italia».

A 16 anni, nel Bologna, lei capisce subito che il talento non basta senza sacrificio e, 34 anni dopo, il ct Conte dice che la voglia di sacrificarsi non c'è più.

«I calciatori sono cambiati, questo è vero, ma non sono tutti così. E succedeva anche prima. A 16 anni ho conosciuto talenti straordinari che sono spariti perchè non avevano voglia di sacrificarsi. Ne parlavo con mio padre Aldo nei giorni scorsi e mi raccontava che nelle categorie amatoriali ci sono ragazzi che se si gioca al sabato pomeriggio dicono presente, ma se la partita è alla domenica mattina si chiamano fuori perchè preferiscono uscire al sabato sera. Io agli inizi, con le partite al mattino, puntavo la sveglia alle 7 e andavo a dormire con le galline, ma non tutti la pensano così e ci sta».

Com'è il Mancini padre che segue i figli che giocano a calcio? Lei è uno di quelli che si attacca alla rete e tormenta i ragazzi?

«No no, per carità, non mi sono mai piaciuti i genitori da rete'. Filippo ora studia e fa l'università, Andrea sta provando ancora con il calcio e vediamo, però se non va deve andare a lavorare e lo sa. Io non vado volentieri a vederli, anche se loro si dispiacciono, perchè alla fine la mia è una presenza vistosa'. Preferisco dar loro consigli in intimità, ma (ride) puntualmente non capiscono perchè sono ancora giovani».

La provoco. Sono passati troppi anni o l'esordio con il Bologna lo ricorda ancora?

«Eccome se lo ricordo. La gente, lo stadio, stare lì in campo con i giocatori veri. Esordire a 16 anni non era una cosa frequente allora. Ricordo che i denti mi battevano forte, forte, come se si giocasse al Polo Nord e non riuscivo a fermarli. Ci sono cose che diventano tatuaggi della memoria: da piccolo ho avuto la meningite e lo rammento come se fosse successo ieri. Nei ricordi che restano impressi c'è la vita che scorre, il bello e il brutto e tutto serve a riflettere e scegliere la strada giusta. Ricordo che poi iniziò la partita, l'emozione sparì ed eccomi qua. Ora che ci ripenso mi sembra impossibile che siano passati 34 anni».

Quasi lo dimenticavamo: auguri Mancini.