Giovedì 25 Aprile 2024

"Prendiamo a pugni il passato". Benvenuti a Mazzinghi, mano tesa

C'eravamo tanto odiati 50 anni dopo. Il toscano non ha mai perdonato all'istriano le due sconfitte del 1965. "E' tempo di fare pace"

Nino Benvenuti e Sandro Mazzinghi (a destra) sul ring (Foto Agi)

Nino Benvenuti e Sandro Mazzinghi (a destra) sul ring (Foto Agi)

Firenze, 13 novembre 2014 - C'eravamo tanto odiati. Quasi mezzo secolo dopo, quei pugni continuano a far male. Non sempre il tempo è una medicina: nel caso di Sandro Mazzinghi e Nino Benvenuti, volti e cazzotti di una Italia che si avviava a scoprire il benessere, è come se il gong dell'ultimo round non sia mai arrivato. Semplicemente, non l'hanno sentito.

C'eravamo tanto odiati. Tanto diversi da sentirsi incompatibili. Mazzinghi, toscano con il naso schiacciato del guerriero, detestava l'estetica eleganza del Nino istriano scappato a Trieste per evitare i comunisti di Tito. «Lui non fa la boxe, solo mossette: è uno sbruffone, un montato, un raccomandato»: così Sandro parlava di Benvenuti nel millennio nuovo ed erano ovviamente già due pensionati del quadrato.

Oggi, a cinquanta anni di distanza dai due match che valevano, nel 1965, la corona mondiale dei superwelter, chi vinse, cioè quello «sbruffone, montato, raccomandato», cioè il cinematografico, hollywoodiano Benvenuti (fece pure l'attore in uno spaghetti western, con Giuliano Gemma), ecco, oggi Nino racconta quanto gli piacerebbe ritrovare il nemico perduto, per seppellire finalmente l'ascia di guerra, per riconciliare storie distinte e distanti. Chiudere il cerchio della vita, scendendo dal ring delle chiacchiere, delle maldicenze, delle allusioni.

Salvaguardando il ricordo di un Duello che eccitava gli italiani: si vendettero molti televisori in più per causa loro, la gente voleva assolutamente assistere alla furibonda, definitiva resa dei conti. «Ci provo da un sacco di tempo e sempre senza risultato - ammette Benvenuti, che ancora si tiene fisicamente benissimo, fa il commentatore in Rai, eccetera - Non c'è stato verso, in alcune occasioni siamo capitati nello stesso posto, l'ho cercato per scambiare quattro parole e Sandro niente, come se ancora ci fossero conti in sospeso tra noi».

E chissà, magari i conti in sospeso ci sono. Mazzinghi, anche in libri bellissimi, ha messo per iscritto la sua verità: ritiene di essere stato derubato in entrambi i combattimenti, è convinto che dietro l'ascesa di Nino, più glamour di un toscano ruvido ma onesto, ci fossero interessi inconfessabili. Il pugilato, quando era disciplina popolarissima, alimentava le facili dietrologie e poi Giulio Andreotti, già potente all'epoca delle scazzottate tra i due eroi, ce l'ha insegnato, a pensar male si fa peccato e però poi ci si azzecca.

«E io che c'entro? sospira Nino con l'aria di chi quasi non sa come difendersi dalle dicerie. Ci incontrammo due volte, lui era forte ma io ero meglio, nel primo incontro addirittura vinsi per kappao! Però non è questo il senso del mio ragionamento, non mi interessa una Carrambata, pensavo e continuo a pensare che tra chi ha fatto il mestiere di pugile esista una fratellanza, siamo parte della stessa famiglia, veniamo dalla stessa storia. Poi se a Sandro non interessa amen, qui nessuno deve chiedere perdono a nessuno».

Bisogna aggiungere, per amore di verità, che Benvenuti, una vita da divo alle spalle, è coerente con se stesso. Ha smesso di dare e prendere pugni nel 1971, per colpa del tremendo argentino Monzon: ne diventò amico, andò pure a trovarlo in prigione in Argentina, dove Carlos era finito per l'omicidio della moglie. Stesso atteggiamento nei confronti dell'americano Griffith, con il quale animò una leggendaria trilogia al Madison Square Garden (e Mazzinghi confidò di dubitare della trasparenza di quelle sfide): fu l'istriano a promuovere una raccolta di fondi per sottrarre l'ex rivale alla miseria dei ghetti.

«Monzon e Griffith mi hanno menato e io ho menato loro, fu bello sentirli amici nel dopo carriera. Con Sandro non ci sono riuscito e a questo punto immagino che mi dovrò rassegnare, è un peccato». Perché c'eravamo tanto odiati non è un film alla Vittorio De Sica, ma uno squarcio di verità, contestata e contestabile, che non passa.