Venerdì 26 Aprile 2024

Vincenzo Boccia: "Riforme, avanti tutta. Jobs Act non si tocca"

Il presidente di Confindustria contro il rischio stallo: "Serve più competitività per accelerare la crescita. Voto anticipato? Pensiamo ai problemi dell’economia"

Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria

Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria

Roma, 27 febbraio 2017 - «Non ci resta molto tempo se vogliamo continuare a essere il secondo Paese manifatturiero in Europa e uno dei primi sette al mondo. Le posizioni acquisite non si mantengono per sempre se non siamo in grado di difenderle, anche perché gli altri Paesi corrono più di noi». Più che un allarme, è un vero e proprio avviso ai naviganti quello che Vincenzo Boccia lancia a governo e Parlamento rispetto al rischio che l’instabilità politica e una lunga e continua campagna elettorale possano consegnare o mantenere l’Italia in una palude stagnante. Tanto più - incalza il presidente di Confindustria – che «dobbiamo sperare che la deriva proporzionale non ci conduca a quel collateralismo consociativo che, nel tentativo di mettere tutti d’accordo, fa perdere di vista gli interessi del Paese, disperde risorse in mille rivoli e ostacola politiche coraggiose».

Presidente, gli economisti del Centro studi di Confindustria parlano di un «ritmo lento» per il Pil italiano, «frenato dall’incertezza, specie politica, con una crescita inadeguata a uscire dalla crisi».

«Si, è vero, anche se la media in Italia può portare fuori strada ed è consigliabile leggere i dati in chiave analitica. Questa crescita lenta incorpora una parte del sistema industriale che va molto bene, una parte che è in fase di transizione e una parte che purtroppo va male».

Ebbene, è possibile scongiurare un 2017 di stallo o siamo condannati a un altro anno di semi stagnazione?

«Sì, ma occorre spingere le imprese che vanno bene a fare sempre meglio e aiutare quelle che arrancano ad agganciare il gruppo di testa. Per questo serve una politica economica rivolta ad accrescere la competitività del sistema industriale».

A quali condizioni possiamo riagganciare il convoglio di testa dell’Eurozona?

«Dobbiamo insistere sulle riforme avendo chiaro che cosa possiamo fare nel breve e cosa possiamo e dobbiamo fare nel medio periodo. In economia come in politica non esiste contemporaneità tra causa ed effetto: quello che fai oggi lo vedi domani. Se il Paese e parte delle sue industrie hanno reagito alla crisi è principalmente grazie alla qualità dei nostri imprenditori e dei nostri lavoratori. Ma non possiamo dimenticare gli effetti positivi del Jobs Act e la fiducia che riponiamo nelle misure contenute nella legge di bilancio 2016: super ammortamenti, iper ammortamenti e interventi funzionali a Industria 4.0, incentivi al salario di produttività, per citarne alcuni. Oltre al recente potenziamento del credito d’imposta sugli investimenti al Sud».

Teme, invece, una spinta politica a smontare le riforme degli ultimi anni?

«Voler smontare il Jobs Act al posto di completarne l’attuazione significa ignorare le condizioni in cui versa l’economia reale del Paese che è ancora molto indietro rispetto alla consistenza del 2008. Parlare di lavoro come se fosse sganciato se non addirittura antitetico allo sviluppo significa tornare a quella dimensione ideologica i cui effetti stiamo oggi pagando con il debito pubblico che abbiamo».

Il ritorno al proporzionale può condurre a nuovo consociativismo della spesa pubblica?

«Dobbiamo augurarci che la deriva proporzionale non abbia questo esito. Speriamo prevalga il buon senso e si mantenga la rotta nonostante si comincino a vedere segnali di pericolo».

Si riferisce ‘anche’ alla manovrina di primavera? Come evitare che si riveli un ulteriore freno per l’economia reale?

«Innanzitutto non facendo passi indietro rispetto alle misure della legge di bilancio e cercando le risorse necessarie prevalentemente in tagli di spesa improduttiva e non in quella per investimenti. Più in generale, occorre continuare a spingere sui fattori di competitività buoni per tutti gli imprenditori, anziché scegliere arbitrariamente i settori del futuro».

In autunno dovremo comunque fare i conti con una manovra di dimensioni epocali. Come evitare che si trasformi in un massacro per imprese e cittadini?

«Occorre avviare un’operazione verità. Il dato più preoccupante è che sono aumentate le diseguaglianze: tra imprese, tra cittadini, tra Paesi. Dobbiamo essere chiari per sciogliere allo stesso tempo i due nodi che ci strangolano e che si rinforzano a vicenda: quello del debito pubblico troppo alto e quello della mancata crescita. Per riuscirci non esiste altro modo che innescare il circolo virtuoso dell’economia: più competitività nelle nostre imprese per vendere più prodotti e servizi; maggiore attrazione di turisti; rilancio delle costruzioni e delle infrastrutture. Solo da qui possiamo aspettarci più occupazione e più domanda nel Paese. Sarebbe suicida rincorrere semplicistiche e fantasiose teorie economiche che porterebbero alla paralisi il sistema industriale italiano».

Che cosa pensa del «lavoro di cittadinanza» proposto da Renzi appena rientrato dalla California?

«Il governo Gentiloni, il governo Renzi e il partito di Renzi si sono caratterizzati attraverso riforme coraggiose che, non mi stancherò di ripetere, occorre non rallentare. Quanto all’ultima proposta, bisogna capirla nel merito ma è certamente un bene che si ricominci a parlare di lavoro nel Paese. Lavoro che, però, possiamo raggiungere in modo strutturale solo imboccando la strada della crescita e dall’innovazione. Altre ipotesi sono pura teoria che eleva il deficit e sposta i problemi nel tempo, un tempo che non ci è concesso».

Per guadagnare tempo, in definitiva, non sarebbe meglio votare presto?

«Per ruolo e abitudine non entriamo nel merito della data delle elezioni. Chiediamo però che la discussione sul voto, pure fondamentale per la democrazia, non distragga politica e istituzioni dai problemi dell’economia. Il punto centrale non è quando andremo a votare ma che cosa vogliamo fare e come. Per questo sarebbe un grave errore smontare le riforme avviate prim’ancora che possano produrre i loro effetti e non implementarle, come invece dovremmo. Le riforme sono un processo continuo: vanno approvate, applicate, misurate negli effetti e, se necessario, corrette e rafforzate. Questa è la cultura che bisogna affermare nel Paese».

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