Alle 11.30 del 29 novembre 1934 Giacomo Puccini diventa un mito. L’Institut de la Couronne di Bruxelles dove il Maestro trascorse gli ultimi giorni non esiste più. Al suo posto c’è un condominio con una piccola targa alla memoria. Microscopica, come il cenotafio di Maria Callas al Père-Lachaise di Parigi. Gli immortali sono giganti di per sé.
L’anniversario di una morte è strano. Di solito si celebrano le nascite. Ma Puccini, a 360 gradi, segna uno spartiacque. È l’ultimo della grandiosa stagione del melodramma. È il primo del modernismo, ispirerà tutti a partire da George Gershwin e Leonard Bernstein. È, nella musica e nella vita, un novello Ulisse che naviga nell’oceano delle passioni, contro i capricci del destino, godendo di quanto gli dei e la volontà concedono all’homo faber. Amante appassionato, marito che torna sempre nella sua Itaca, padre affettuoso. Bon vivant innamorato della caccia, della buona cucina senza le follie di Gioacchino Rossini, della tecnologia: la fissa delle auto gli costò una frattura della tibia. I sempre presenti sigari toscani gli saranno fatali. Nel marzo 1924 avverte i primi maldigola, attribuiti all’ingestione di un osso d’oca. I medici fiorentini gli diagnosticano il cancro alla laringe. Il figlio Antonio lo porta alla Couronne di Bruxelles dove praticano la radioterapia degli albori. La flogosi data dalle massive radiazioni costringe i medici a tracheotomizzarlo. Sono conservati i bigliettini che scriveva per comunicare, privato della voce, il timore di non concludere la Turandot. Sembra migliorare, ma il 25 novembre ha un collasso e il giorno dopo si arrende.
Il 4 dicembre nel Duomo di Milano si tennero le monumentali esequie del Maestro. Fu eseguita la marcia funebre dell’Edgar, la seconda opera ambientata nell’epopea fiamminga della Battaglia degli speroni d’oro. Sepolto nella tomba della famiglia Toscanini al Cimitero Monumentale, dal 29 novembre 1926 riposa nella cappella della villa di Torre del Lago. L’origine familiare a Celle in Garfagnana, la casa natale a Lucca, le vacanze giovanili alla parrocchia di Mutigliano, gli ultimi tempi nella villa del Marco Polo a Viareggio: di tutti i luoghi pucciniani la casa di Torre del Lago, oggi museo, fu la più amata. Era l’abitazione di Venanzio Barsuglia, guardiano del marchese Carlo Benedetto Ginori Lisci. Puccini la comprò nel 1899 e la fece ristrutturare, trasferendovisi l’anno dopo: allora era proprio a bordo lago, senza l’antistante piazzale attuale. Divenne un nido pascoliano fino all’apertura dell’escavo della torba, che a fine 1920 lo costrinse a rifugiarsi a Viareggio. Dopo gli altalenanti esordi delle Willis (Milano 1884), poi Villi (Torino 1884) e dell’Edgar (Milano 1889), arrivarono i trionfi di Manon Lescaut (Torino 1893), Bohème (Torino 1896), Tosca (alla prima a Roma nel 1900 c’era la regina Margherita che, lui ragazzo, gli aveva concesso la borsa di studio per il Conservatorio di Milano), il tonfo iniziale di Madama Butterfly (Milano 1904), La Fanciulla del West (New York 1910), i sospetti di spionaggio contro l’Austroungheria ai tempi della Rondine (Monte Carlo 1917), l’apoteosi col Trittico (New York 1918). Il destino non gli fece terminare Turandot. L’ultima parte fu orchestrata da Franco Alfano con la revisione di Arturo Toscanini, che ne diresse la prima alla Scala il 25 aprile 1926. Toscanini interruppe la première alla morte di Liù (sarebbe bene farlo anche oggi).
L’intera incompiuta è permeata di malinconia come se Puccini presagisse la fine. Compose gran parte della partitura al Marco Polo, struggendosi nei ricordi del Lago di Massaciuccoli, citato nella scena delle maschere (il Maestro interveniva di persona nei libretti). Perché senza il Massaciuccoli Puccini non sarebbe esistito, o sarebbe stato altro. Non sarebbe andato a caccia col barchino condotto dall’amico e custode della villa Giulio Giovannoni detto Nicche (il Nick della Fanciulla). Non avrebbe solcato il Burlamacca fino al Gran Caffè Margherita di Viareggio, bardato da cacciatore, dove incontrava le "amiche" all’insaputa della moglie Elvira Bonturi. Non avrebbe lasciato ricordi e ricette dei piatti di cacciagione che amava, a partire dalle folaghe (sono raccolti nei libri di Emiliana Lucchesi e Clara Bianucci). Non ci sarebbe stato nemmeno il dramma di Doria Manfredi.
Nei decenni le musiche di Puccini sono state la colonna sonora di decine di film: diegetiche, suonate nella rappresentazione, o extra diegetiche. In Stregata dalla luna entrambi gli usi sono l’ossatura della narrazione, fino alla carrellata finale sulle ultime emozionanti note del terzo quadro della Bohème: hanno ispirato perfino il techno pop. Fosse vissuto un secolo dopo, Puccini sarebbe stato una rockstar. Jimmy & The Willis, mica il chiaro di luna.
Beppe Nelli