C’è il clima delle grandi feste al teatro Rossini: il pubblico elettrizzato, gli applausi convinti alimentanti da un ritmo incalzante, dall’effetto sorpresa. Quando in scena c’è il superlativo dinamismo di uno come Arturo Brachetti, il più grande trasformista del mondo o quick change, detto altrimenti. La sua straordinaria abilità tecnica e illusionistica, inutile tentare di capire come fa a trasformarsi in un batter d’occhio, ad assumere nuove identità "me lo chiedono sempre, me lo chiedono tutti" esclama divertito in uno dei passaggi fra un quadro e l’altro dello spettacolo.
Si fa presto a dire trasformista, Arturo Brachetti è un artista di quelli con la a maiuscola, uno che domina la scena anche quando interpreta se stesso e dialoga col pubblico. 60 anni e più, un fisico esile, elastico, 50 kili di peso, (chissà), si muove come una gazzella, salta come un capretto, avrebbe detto un tempo una delle nostre nonne. Vola come una libellula, non c’è il tempo di accorgersi come sia possibile e lo ritroviamo travestito magari da Cenerentola con una gigantesca scarpetta per storia dipanata in modalità scherzosa. Brachettti è un attore, è un grande comunicatore, e come poteva trascurare una delle regole della comunicazione mediatica che risponde alle esigenze di una post modernità, lo fa con una intelligente ironia per un teatro colto, per uno spettacolo tra profondità e leggerezza.
Un format fra tecnologia e creatività, una evoluzione del suo lavoro iniziato negli anni 80, frutto della sua abilità di essere “Solo“, di essere uno e centomila, nessuno mai. Brachetti ci ha fatto visitare le stanze della sua casa, mostrato i contenuti, i ricordi e ogni volta è diventato uno dei personaggi che ha sognato, conosciuto, idealizzato attraverso il tempo della sua vita di bambino prima, di adulto e di artista poi: ecco il mondo delle favole e lo abbiamo visto diventare un lupo con un Cappuccetto rosso, una ironica dysneiana Biancaneve piuttosto civettuola, lo abbiamo visto interpretare cartoni animati o Star Trek, l’incredibile Hulk, celebri cantanti pop e trasformarsi in una aggressiva Tina Turner, un molleggiato Michael Jackson. Lo abbiamo visto interpretare opere di pittori surrealisti come Magritte e anche sulla sua casa contenitore di memorie si apre un ombrello magrittiano, poi una colorata performance evocativa che rimanda ai girasoli vangoghiani.
E’ una carrellata di sorprese continue e quando il ritmo musicale lascia presagire il termine la caleidoscopica macchina dello spettacolo riparte e trascina. In scena compare anche una sorta di alter ego, quello che Brachetti ha chiamato la sua ombra, con cui interagisce, qualcosa che pare la metafora dell’Io freudiano in dialogo con l’Es, un’ombra cui impartisce ordini e con cui si mette in competizione. Ma non è tutto: la sequenza perfetta del laser show per una sorta di guerre stellari, i movimenti in una perfetta sincronizzazione dei due lottatori con i fasci luminosi, tutto è un vero incanto. Non manca il virtuosismo della Sand Art e via via le immagini si formano e si trasformano con la stessa modalità creativa, veloce e sorprendente con cui Brachetti si traveste e con il disegno ci consegna l’omaggio a Pesaro col nome della città scritto sulla miriade di granelli di sabbia sopra un quadro luminoso. E che dire della sua abilità nel proporre le ombre cinesi, della fantastica carrellata di cani, di razze diverse e un tenero gatto, ovviamente nero, che conclude il quadro.
Brachetti un talento, un fenomeno. Uno che sa fare un mestiere che nessuno sa fare. Cala il sipario e ancora ritorna in scena e ancora una volta dopo 90 minuti e 60 o forse più trasformazioni, cambia un ultimo abito. Solo quel ciuffo impertinente di capelli resta sempre uguale. Come resta la meraviglia di un incontro e anche il mistero. Chapeau Arturo, il cappello che avevi avuto in dono da tuo nonno, quello con cui hai creato Napoleone e tanti altri, personaggi, in fondo non era neppure un cappello.