Mercoledì 24 Aprile 2024

Sara Gama, la lezione delle donne per abbattere le barriere

Sara Gama, Difensore Juventus Women

Sara Gama, Difensore Juventus Women

"Il razzismo è un’espressione dell’ignoranza: se conosci l’altro, sei pronto a fargli spazio La diversità, di ogni tipo, è un valore aggiunto"

NATA A Trieste ETÀ: 30 anni SQUADRA: Juventus Women RUOLO: Difensore

Un sogno è inseguire un pallone che gli altri credono irraggiungibile. Sara Gama, madre italiana e padre congolese, quel pallone ha cominciato a rincorrerlo a 7 anni: a Trieste, unica bambina in una squadra di maschi. Oggi Sara è il capitano della Juventus Women e della Nazionale italiana che dopo 20 anni andrà, a giugno, a giocarsi il Mondiale. Icona di un movimento calcistico femminile alla ribalta e “ispirazione per ogni bambina”, come spiegava la Mattel nel dedicarle una Barbie speciale. Oggi, a 30 anni, Sara è una donna che guarda al futuro ancora con la voglia di cambiare il mondo: “Mi auguro di vivere in un’Italia dove non si parlerà più di razzismo”. Sara Gama, che cos’è il razzismo? «Il razzismo è un’espressione dell’ignoranza: sei razzista, se non conosci l’altro. La diffidenza crea un muro: la conoscenza dell’altro rispetto a te, invece, smonta queste barriere. In Italia il problema esiste e bisogna cercare di arginarlo, ma ho sempre detto e continuo a pensare che il nostro non sia un Paese razzista». Se diventa un caso persino la vittoria a Sanremo di Mahmood, un ragazzo italo-egiziano, come si può pensare di fermare l’odio razzista negli stadi? «Non c’è dubbio che oggi quello della diversità sia un tema sensibile nella nostra società. Molte cose vanno aggiustate: bisogna cominciare a pensare a cosa fare per cambiare questa situazione. Le persone vanno educate». Sulle misure anti-razzismo, però, il nostro calcio si è spaccato: c’è chi sarebbe per sospendere una partita e chi propende per interventi meno drastici. «La verità sta sempre nel mezzo: certi episodi come quello capitato a Koulibaly del Napoli non possono più essere tollerati; dopodiché le gare non possono essere ostaggio delle tifoserie. Bisogna trovare a monte i responsabili e non credo sia una cosa così difficile: queste manifestazioni di odio partono da gruppi ristretti, poi magari si allargano; ma vanno stanate le mele marce e sradicate dagli stadi». Mancano soltanto le leggi o il problema è più radicato? «In Italia serve una nuova cultura sportiva: le squadre vanno supportate, incitate; invece, ci si concentra di più a insultare l’avversario. Ecco vorrei sentire più tifo propositivo che tifo ostile». La discriminazione ha tante facce: c’è anche quella di genere che lei conosce bene. Quanta strada manca ancora al movimento calcistico femminile? «Abbiamo iniziato un processo molto lungo che negli ultimi tre anni ha vissuto un grande sviluppo. Le rivoluzioni culturali richiedono molto tempo, ma piano piano stiamo smantellando i pregiudizi attorno a noi. Quando c’è conoscenza, non c’è più diffidenza e si è pronti a fare spazio a ciò che è ‘diverso’. Noi donne del calcio non togliamo nulla a nessuno: siamo un valore aggiunto». La sua sfida si gioca anche in un altro campo: lei è consigliere Figc. A quale battaglia istituzionale dà la priorità? «Il prossimo step è raggiungere il professionismo: noi continuiamo ad avere uno status da dilettanti e questo non si può più accettare. In Italia non ci sono ancora atlete professioniste: io voglio e spero che il calcio faccia da apripista». Domenica, per la prima volta nella storia, la tua Juventus ha giocato allo Stadium con la Fiorentina: 40mila spettatori, sold-out. Come si può rendere questa bellissima eccezione una regola? «Dobbiamo crederci di più. Non parliamo di Stati Uniti, ma della Spagna, un Paese che fino a pochi anni fa era come l’Italia, dove il calcio femminile era poco sviluppato. Ma sono partiti prima di noi, hanno cominciato a lavorare a livello mediatico: se il prodotto piace, cresce tutto, il sistema, le strutture e, di conseguenza, lo spettacolo». Cosa può insegnare il calcio femminile ai colleghi maschi? «Noi veicoliamo un messaggio che vale anche per la lotta al razzismo: il nostro calcio si basa sulla passione. Oggi grazie ai club professionistici come la Juventus, abbiamo strutture di altissimo livello, non ci manca nulla, ma solo noi sappiamo quanto ci è costato arrivare fin qui: tutto perché per noi giocare è pura gioia. Per i maschi, sicuramente, è più un business». Nel discorso davanti a Mattarella, per la festa dei 120 anni della Figc, lei disse: “Molti non conoscono i sacrifici che abbiamo fatto quando eravamo bambine”. Con cosa si sono scontrati i suoi sogni di diventare una calciatrice? «A quattordici anni, il pomeriggio non andavo a fare il giro in città con le amiche, mi allenavo lontano da casa, rientravo la sera, facevo i compiti di notte. Ho visto tante compagne smettere. Il mio sogno è che tutte le ragazze che amano questo sport possano trovare, come i maschi, un campo a cinque minuti da casa».