Stefano Cecchi
FIRENZE
SALE

sul palco e capisci subito che è un trionfatore senza se e senza ma: «Questa — dice — non è la fine della sinistra ma la fine di una classe dirigente della sinistra. Noi non stiamo cambiando campo, stiamo cambiando i giocatori. Tante sfide belle sono state vinte, ma basta sentirsi raccontare la loro storia, ora è arrivato il momento di scrivere la nostra di storia. E vi prometto che il nostro obiettivo non è sostituire un gruppo di potere ma scardinare un sistema. Abbiamo un’occasione unica, questa volta il cambiamento sarà vero».

ORE 23,

Obihall di Firenze. Stavolta le bandiere del Pd ci sono eccome, e sventolano sopra un’euforia contagiosa. Ne è passato di tempo da quando sembrava solo un Pierino, uno dei tanti guastatori stagionali di cui è pieno l’almanacco dei partiti di sinistra. E invece Matteo Renzi il Rottamatore da ieri sera è il nuovo leader del Pd, l’uomo della sopravvivenza chiamato a riscattare il centrosinistra da una lunga stagione di sconfitte quasi tutte causate da autogol. «Vincere non è una parola fascista, chi in politica ha paura di vincere deve cambiare mestiere», grida dunque dal palco nel comizio a caldo che saluta la sua vittoria. E, nel dirlo, fa capire che il mestiere qualcuno nel suo partito dovrà cambiarlo presto. «Perché noi non faremo a meno dell’esperienza degli altri ma adesso la gente ha affidato a noi il compito di guidare la macchina proprio perché la vecchia classe politica non ha saputo cogliere gli umori del Paese».
Il neosegretario nell’ora della stravittoria usa parole che allo stesso tempo sono colpi di mazza e carezze di velluto. Ringrazia Pittella, Civati («Chi l’avrebbe mai detto che la Leopolda sarebbe stata maggioranza nel Pd?») e Cuperlo, «il quale è la prima persona con la quale mi piace discutere» ma avverte tutti coloro che dopo la sentenza della Consulta sulla legge elettorale hanno brindato pensando al ritorno al proporzionalismo, di riporre la bottiglia sullo scaffale: «Ai teorici dell’inciucio dico infatti che vi è andata male», ribadisce Renzi spiegando che il suo Pd si batterà per «una legge elettorale che garantisca il bipolarismo», annunciando una proposta di legge per «tagliare di un miliardo i costi della politica».
Il «Blair italiano», come lo chiamano i francesi, o il «sindaco attaccabrighe» secondo il Sunday Times nel suo intervento non esita nemmeno a ridefinire il perimetro della sua sinistra ideale. «Bisogna far sapere — dice — che è di sinistra abbassare le tasse, rivendicare il merito, dire che non può bastare l’iscrizione a un sindacato per fare carriera». E per farlo annuncia una sorta di campagna politica senza troppe galanterie: «Forse useremo dei mezzi spicci — spiega — ma non confondete l’ambizione di cambiare l’Italia con quella di cambiare un governo. Noi apriamo a una generazione di persone che vuole svegliare la bella addormentata nel bosco che è oggi l’Italia. Se mi avete dato la fascia di capitano di questa squadra io non farò passare il giorno senza lottare su ogni pallone».

DUNQUE



da ieri sera il partito nato dalla fusione fredda di Pci e Dc cambia verso. Sulla poltrona di guida si siede un politico di 38 anni che appena qualche mese fa avresti detto completamente inadatto al ruolo per storia politica e approccio alla vita di partito. E mentre Renzi lasciava l’Obihall accompagnato dalla moglie Agnese, dentro la sala che ribolliva entusiasmo, un vecchio iscritto del Pci sorrideva: «Un tempo i comunisti mangiavano i bambini, ora un bambino sta mangiando i comunisti. Mah!, vediamo un po’ come va a finire». Già, vediamo un po’ come va a finire.