{{IMG_SX}}Roma, 23 gennaio 2007 - Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Romano Prodi per chiedere la sospensione dalla carica del presidente della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro.


"Come Ti è noto, il 18 gennaio scorso il Tribunale di Palermo ha pronunciato sentenza di condanna per favoreggiamento e rivelazione di segreto nei confronti del Presidente della Regione siciliana.


I fatti addebitati al Presidente Cuffaro ed accertati dal Tribunale con la sentenza di primo grado, emergono nella loro estrema gravità, non solo per come attestato dalla pesante pena irrogata (cinque anni di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici), ma soprattutto in quanto si tratta di comportamenti di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio su indagini riguardanti affiliati mafiosi.

Al riguardo mi preme sottolineare due ordini di considerazioni.


In primo luogo, la condivisione sulle modalità per intervenire sulla vicenda, facendo puntuale applicazione di quanto già l’ordinamento vigente impone. Infatti, al riguardo, l’articolo 15, comma 4-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55, prevede la sospensione didiritto, anche in caso di condanna non definitiva, tra gli altri, per ipotesi di delitti di favoreggiamento personale o reale, commesso in relazione ai delitti indicati nel comma 1, lett. a) dello stesso articolo 15. Nel novero di tali reati figura, tra gli altri, quello previsto dall’articolo 416-bis del codice penale, e cioè quello di associazione di tipo mafioso. Dagli atti risulta che la condotta di favoreggiamento posta in essere dall’on.le Cuffaro è stata riconosciuta dal Tribunale, sebbene in forma non specificamente aggravata, in favore di affiliati alla predetta associazione, e pertanto comunque “in relazione” allo stesso titolo di delitto, come espressamente richiede la disposizione normativa in esame.

 

 

Peraltro, anche la sopravvenuta abrogazione del citato articolo 55 ad opera dell’articolo 274 del testo unico degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ne ha comunque mantenuto salda la vigenza quanto ai (tra gli altri) consiglieri regionali, come prevede il citato articolo 274, comma 1, lett. p).

 

Come è noto, il percorso istituzionale prevede, ai sensi dell’articolo 15, comma 4-ter della legge n. 55 del 1990, che proprio il Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro per gli affari regionali e il Ministro dell’interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione. Tale esito, come è evidente, discende, per fatti di gravità così gravemente acclarata, dall’esigenza di garantire, nelle more dell’accertamento giudiziale definitivo, la tutela dell’interesse pubblico, leso dalla permanenza in carica e dallo svolgimento delle relative funzioni istituzionali da un soggetto rispetto al quale è stato accertato il venir meno di un requisito essenziale per continuare a ricoprire un ufficio pubblico elettivo.

 

Ma, soprattutto, mi preme mettere in evidenza una seconda considerazione.
Come Ministro della Repubblica, e soprattutto come cittadino, sono sconcertato dalla reazione che ha caratterizzato il comportamento del Presidente della Regione Sicilia rispetto alla sentenza che lo ha condannato e che, a chiunque abbia dignità e rispetto verso le istituzioni, avrebbe dovuto suggerire soltanto di prendere la decisione di dimettersi e farsi da parte per tutelare sopra ogni altra esigenza la necessità che le istituzioni pubbliche al cui servizio esclusivo ciascuno dovrebbe operare, non rimangano anche indirettamente o minimamente turbate o pregiudicate nella loro credibilità di fronte alla collettività da fatti di tale estrema gravità.

 

Ritengo, pertanto, che il Governo non possa rimanere inerte rispetto alla vicenda in questione e che sia indispensabile l’adozione di misure concrete, in conformità a quanto previsto dall’ordinamento, volte ad assicurare il primato della legge ed il pieno rispetto del principio di legalità, restituendo, in tal modo, credibilità ed autorevolezza alle istituzioni dello Stato.

Non solo, in questa vicenda, emerge l’esigenza di dare integrale attuazione a quanto già prevede l’ordinamento, come segnalato. Quanto soprattutto risulta impossibile non provvedere con la massima urgenza.

 

Si tratta di un adempimento doveroso, per il rispetto che tutti dobbiamo alle istituzioni e alla legge. Ma, ancora prima, per il debito morale che ancora dobbiamo saldare con le tante, troppe vittime della mafia e con i loro congiunti, testimoni perenni di come l’impegno etico e civile sul quale è costruita la nostra speranza di convivenza ordinata, capace di non arretrare neppure di fronte al sacrificio più estremo e alla violenza più odiosa, non può certo tollerare per un solo giorno ancora un’ombra così inquietante su istituzioni talmente prestigiose.

 

Mai come in questa vicenda l’esigenza di fare, e far presto, costituisce la doverosa forma di adempimento della legge che deve distinguere una classe dirigente degna di questo appellativo da una solo ipocrita e meschina.
Sono convinto che non sei sordo a queste esigenze, e in maniera condivisa sapremo esprimerne la risposta più convinta e degna del rispetto che anche così si deve a chi ha preferito sacrificarsi alla mafia, più che rivelarle segreti d’ufficio".