Mercoledì 24 Aprile 2024

"Viva la vita". È sempre il tempo di Sophie

La Marceau a Cannes nel film di Ozon sull’eutanasia. "Può essere amore anche accompagnare verso la fine un padre che si adora"

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di Giovanni Bogani

Dal tempo delle mele, al tempo del dolore. Sophie Marceau adesso ha cinquantacinque anni, e ancora gli occhi che ridono. È leggera, agile. Si presenta ai fotografi, al photocall, in jeans. A volte, nel suo volto, vedi ancora quello della ragazzina di quel film cult di quarant’anni fa. È al festival di Cannes con Tout s’est bien passé, il film in concorso in cui François Ozon affronta un tema delicato, doloroso, controverso come quello del suicidio assistito.

Nel film di Ozon, il cui titolo, tradotto in italiano, suona “È andato tutto bene“, Sophie Marceau è la figlia cinquantenne a cui il padre André Dussollier chiede di aiutarlo a morire. È tratto dal libro scritto da Emmanuelle Bernheim, che racconta la vicenda che ha vissuto realmente con suo padre. In Italia il libro è pubblicato da Einaudi.

Sophie, che effetto le fa approdare a Cannes, in questo anno così unico?

"Sono felice, ma anche spaventata di essere qui. È una delle prove più importanti e più impegnative della mia carriera, me ne rendo conto".

Come ha vissuto il personaggio che interpreta?

"Ho cercato di non farne una piagnona. Ho cercato di dare al film, e al mio personaggio, anche della gioia. È vero, si parla di dolore, si parla di come affrontare la morte. Ma dentro c’è anche tanta vita, c’è tanto amore fra una figlia e un padre. Ho cercato di disegnare un personaggio vivo. Anche accompagnare una persona che si ama verso la fine può essere un atto di amore, un atto di vita".

È un film sul dolore e sull’amore.

"C’è amore anche nel dolore. E in questo film si soffre, si piange e qualche volta si ride. Ci sono tanti colori, tante emozioni diverse. Anche la morte fa parte della vita".

Per la prima volta, si trova a interpretare un personaggio realmente esistito, Emmanuelle Bernheim, la figlia "vera" e l’autrice del libro da cui il film è tratto.

"Io non ho conosciuto Emmanuelle, ma ho letto con avidità il suo libro, ho cercato di interiorizzare certi dettagli, piccole cose concrete, ma molto significative. Come quando racconta di avere preso il tramezzino morsicato da suo padre, all’ospedale, e di esserselo portato a casa. Poi esita, lo mette nel frigorifero, non si arrende per giorni all’esigenza di buttarlo via".

A interpretare il padre, un gigante del cinema francese come André Dussollier.

Dussollier, come ha preparato il suo personaggio, i suoi handicap, la sua mobilità ridotta, le sue emiparesi?

"François Ozon, il regista, mi aveva affidato una videocassetta con il vero personaggio, il padre di Emmanuelle Bernheim, che era un’amica di François. Ho studiato molto quel video. Per la bocca storta, che diviene una specie di icona della difficoltà, dello strazio fisico del personaggio, dopo tantissime prove abbiamo adottato la soluzione più semplice: un po’ di collante fissato sul mento. Siamo tornati al cinema delle origini, in qualche modo".

Sophie, il film è anche sorprendentemente pieno di momenti di ironia.

"In fondo, è la storia di una figlia che aiuta suo padre a morire perché ama la vita, non perché ama la morte. È una storia di vita, e non di morte".

Un soggetto molto intimo, ma anche molto universale.

"Penso che il rapporto di una figlia con il padre sia infinito. Più si va nel profondo di un rapporto intimo, più si ha la chance di essere universali, di parlare a tutti. E più si è sinceri, più si è capaci di toccare anche le altre persone".

C’è anche un segreto che il padre nasconde…

"È un padre difficile, che ha imposto la sua autorità. E che rivela, tardi, una sua vita omosessuale parallela a quella coniugale. Prima, i matrimoni nascondevano molte nevrosi familiari".

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