Giovedì 25 Aprile 2024

Quel garibaldino di Sandokan, l’inedito Salgari

Verona, 1891, lo scrittore insorge contro la censura dell’Inno all’eroe del Risorgimento. Ritrovati i suoi articoli per l’“Arena“

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di Francesco

Ghidetti

Quell’Inno non s’aveva da suonare. È il 30 agosto del 1891, domenica. Un giovane (29 anni) Emilio Salgari, scrittore, giornalista, polemista, autore immortale di Sandokan e di molti altri romanzi d’avventura – proprio in quegli anni comincia ad affermarsi la sua figura – si reca, felice come pochi, nel giardino della Società Filodrammatica Alfieri di Verona. Non solo per diletto culturale, ma per passione. Amorosa. Lì recita Ida, la bella e passionale Ida Peruzzi, futura moglie dello scrittore (gli darà quattro figli e finirà la sua vita in manicomio). E in quella che i giornali avrebbero definito "stupenda cornice" si compie il misfatto. Le fanfare della Speranza suonano diversi brani. Tra questi l’Inno di Garibaldi (opera di Luigi Mercantini, famoso per la struggente Spigolatrice di Sapri sull’impresa di Carlo Pisacane).

Tra il pubblico c’è un delegato di pubblica sicurezza. Uno zelante delegato. Che convoca il presidente della società Speranza e lo redarguisce: come si fa a suonare un così pericoloso canto? Salgari, cronista puntiglioso, grande ammiratore dell’Eroe dei Due Mondi, lo viene a sapere. E l’indignazione è fortissima. Prende carta e penna e scrive un durissimo articolo per l’Arena, il giornale principe di Verona "per dimostrare come certi funzionari di P.S. intendano la libertà". Il titolo del “pezzo“ non lascia spazio a equivoci: L’Inno di Garibaldi proibito a Verona. Emilio saetta, asciutto e irato: "In occasione di una serata d’onore, la brava fanfara della Speranza diede un concerto suonando vari scelti pezzi fra cui, per richiesta del pubblico, l’Inno di Garibaldi. Orbene, lo credereste, quell’inno suonato da tutte le Bande, perfino dalle militari, nei teatri, nelle piazze, dovunque insomma, ha fatto arricciare il naso a un funzionario di Pubblica Sicurezza. Infatti essendosi ieri il presidente della Società recato all’ufficio di P.S. di Veronetta, si ebbe una lavatina di capo per non aver proibito che venisse suonato". Apriti Cielo. Polemiche a non finire e imbarazzata replica di Guglielmo Cristini, presidente dell’Alfieri: il delegato di pubblica sicurezza non è intervenuto per l’Inno, bensì perché "il vicinato aveva prodotto dei reclami per i troppi frequenti e prolungati suoni ad ora tarda". Riapriti Cielo. Salgari non ci sta e controreplica che la notizia "l’ebbi dalla sua bocca" (cioè dal presidente dell’Alfieri). E non solo: "Che quel signor delegato abbia solamente accennato all’Inno di Garibaldi, senza aver con ciò inteso di volerlo proibire, io ne sono convintissimo, ma che il signor Cristini mi venga ora fuori a dire che non ebbe mai lavate di capo, o rimproveri, per non aver proibito l’inno, questo poi no". Insomma, qualsiasi fosse stato il motivo, il rimprovero ci fu, eccome se ci fu.

La vicenda viene ricostruita da Claudio Gallo (docente di storia del fumetto a Verona, autore di numerosi studi su Emilio e che a febbraio manderà in libreria un nuovo saggio biografico su Salgari scrittore di avventure per le edizioni Oligo di Mantova) e Giuseppe Bonomi sulla rivista Il Corsaronero e aggiunge un tassello ai rapporti tra Salgari e il suo mito, Garibaldi appunto. Un mito che alcuni studiosi vedono riflesso negli stessi romanzi di Salgari. Insomma, chi era Sandokan se non un eroe ispirato dalla figura del rivoluzionario di Nizza?

Ma la vicenda va contestualizzata storicamente. Dice Giuseppe Monsagrati, già ordinario di Storia del Risorgimento alla Sapienza di Roma: "Guardiamo l’anno. Il 1891. Da pochi mesi non c’è più Francesco Crispi alla presidenza del Consiglio. Sì, il Crispi regista della Spedizione dei Mille e poi convinto sostenitore dell’alleanza con Germania e Austria. Ma, ancora legato al suo condottiero, mai avrebbe permesso una cosa del genere. E in quell’agosto a capo del governo c’è Antonio Di Rudinì, anch’egli triplicista, però reazionario e filo-cattolico che vede l’Eroe dei Due Mondi come il fumo negli occhi". Ma non è finita, dice Monsagrati: "Non dimentichiamoci che Verona era la città cuore del sistema militare austriaco. E questo avrà pur contato, se non altro come spinta, diciamo così, culturale per il questurino".

Zelante. Forse troppo. O forse non gradiva quel verso fatidico: "Bastone tedesco l’Italia non doma".

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