Cinquanta anni fa, a gennaio del 1974, una stella cometa venne ad illuminare il cielo del pianeta chiamato Televisione. Non è una esagerazione, fidatevi: quando la rete americana Abc trasmise il primo episodio di Happy Days, beh, innescò una sorta di rivoluzione… comportamentale. Da lì in poi, attraversando i continenti, intere generazioni si sarebbero specchiate nei gesti e nelle frasi di adolescenti appartenenti ad un’altra epoca, agli States degli anni Cinquanta, gli Usa di Eisenhower presidente e del primissimo Elvis Presley.
Eh, sì. Chi c’era non ha mai dimenticato Fonzie, cioè Arthur Fonzarelli, cioè l’attore Henry Winkler. Il suo giubbino di pelle nera, il suo “ehi ehi” scandito con un sorriso sornione, la sua proverbiale incapacità di chiedere scusa (diceva “scu…” e poi si interrompeva, mica per niente a proposito del recentissimo caso Ferragni/Pandoro uno che appunto c’era, Massimo Gramellini, ha scomodato il Fonz per commentare le giustificazioni della celebre influencer).
Eh, sì. Oggi, con migliaia di programmi disponibili a qualunque ora su qualunque rete o piattaforma, un fenomeno globale in stile Happy Days sarebbe improponibile. Impensabile, persino. Passiamo da un clic a uno streaming, in una bulimia di contenuti che, alla fine della fiera, ci lascia vagamente anoressici. Sazi, ma non appagati.
Tutto questo lo ha compreso magnificamente Emilio Targia, valoroso collega di Radio Radicale, l’emittente che Marco Pannella volle non casualmente come alternativa alla informazione ufficiale e paludata della Rai. Emilio è per vocazione un genio mezzo matto: conosce a memoria tutti i 255 (duecentocinquantacinque) episodi della saga, congedatasi dal suo popolo nel 1984. È un testimone, più che un biografo della serie. Sa che il mitico Robin Williams fu lanciato da Happy Days, nei panni dell’alieno Mork. E persino Tom Hanks, che è Tom Hanks, cioè il cinema a stelle e strisce degli ultimi trent’anni, a inizio carriera fece i conti con Fonzie, con Richie (interpretato da Ron Howard, in seguito uno dei più bravi registi di Hollywood), con Potsie, con Ralph Malph, con Spadino e con Joan.
Tutta questa onnisciente competenza Targia l’ha riversata, in combutta con il suo complice Giuseppe Ganelli, in un libro piacevolissimo, La nostra storia, tutto il mondo di Happy Days, edito da Minerva. Un viaggio tra memoria e rimpianto, fra tic e suggestioni, tentando di immaginare il mondo com’era, appunto senza Tik Tok, senza social, senza ossessioni da smartphone, quando bastava il passaparola per condividere una emozione, una battuta, uno spunto di allegria che pure faceva pensare. Soprattutto, Targia e Ganelli, avvalendosi di una moltitudine di testimonianze, hanno un pregio in più: non hanno dimenticato la dimensione “italiana” di Fonzie e dei suoi compari.
Tradotto: il telefilm apparve su Raiuno nel cuore delle tenebre. Non orarie: Happy Days andava in onda prima del telegiornale della sera. Nel Bel Paese debuttò l’8 dicembre 1977. Anni di piombo, il caso Moro dietro l’angolo, l’angoscia che ogni sera inghiottiva le famiglie, prigioniere di dementi Rossi e Neri che pretendevano di giocare alla Rivoluzione.
So di essere banale, eppure è vero. Per chi come me viveva le tempeste ormonali della adolescenza nella seconda metà degli anni Settanta, beh, Fonzie e i suoi amici rappresentavano un antidoto potentissimo. Ma non per le paturnie sentimentali, no. Happy Days era la medicina contro il plumbeo orrore del terrorismo quotidiano.
In giornate che spesso cominciavano con l’annuncio via radio di una oscena “gambizzazione”, se non addirittura di un omicidio, l’ennesimo, ecco, a sera quel telefilm americano, con le atmosfere di una epoca che potevamo sognare incorrotta, tra mamma e papà Cunningham, tra Arnold e Alfred, tra Ralph e Potsie, ci restituiva alla ingenuità perduta. Sarebbe poi arrivato, troppo presto!, il Tg1 ad intristirci.
Fonzie e Richie e la Loggia del Leopardo di suo padre (altro che P2!) e i Juke box e le ragazze finte svampite: potrei citare a memoria, anch’io, dozzine di episodi di Happy Days, sapendo che ogni frammento è un brandello della mia giovinezza. E non solo della mia. E cosa potremmo chiedere in più, alla tv?