Giovanni Bogani I capelli biondi, fini. Gli occhi azzurrissimi. Lino Capolicchio, volto efebico e bello del cinema e del teatro italiano, se n’è andato nella notte dei David, a 78 anni. In silenzio. Un David lo aveva vinto nel 1971 per il film che lo consacrò, Il giardino dei Finzi Contini. Il film nel quale interpretava un giovane ebreo, nell’Italia fascista e razzista del 1938. Lo interpretava così bene che Golda Meir, l’allora primo ministro di Israele, al pranzo di gala dopo la “prima“ del film a Gerusalemme gli chiese se fosse davvero ebreo. "No, grazie, non ho questo onore" avrebbe potuto rispondere, come Charlie Chaplin quando gli fu rivolta, ma in tono accusatorio, la stessa osservazione. Lino Capolicchio era nato a Merano, nel 1943. Nel dopoguerra, si ritrovò – bambino – strappato alla famiglia, imprigionato in un collegio, per volere del padre. Un trauma che non dimenticò. I suoi rapporti con il padre furono sempre difficili. Ma fu difficile anche portare, per tutta la vita, quell’aspetto così poco mediterraneo. Perché Capolicchio, con i suoi occhi limpidi, era mitteleuropeo, raffinato, asburgico. E quell’aspetto, da Tadzio di Morte a Venezia, fu per lui un privilegio e una condanna. I fratelli Taviani gli dissero: "Lei sembra un attore inglese"; e mille altri proseguirono quel mantra: sembra russo, sembra tedesco… Insomma, per il cinema italiano era un alieno, un corpo estraneo. Non ha mai fatto parte davvero della commedia all’italiana, di quel mondo di eroi del “tiriamo a campare“, di quei volti segnati dall’arte di arrangiarsi di cui siamo maestri indiscussi. Lui, a vent’anni, attraversava già il fuoco e il ghiaccio del teatro del maestro più sublime: Giorgio Strehler. Non era stata la recitazione il suo primo amore. Era la musica. Da bambino, usciva dalla Messa piangendo, stravolto di emozione per la musica dell’organo. Ventenne, ...
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