Venerdì 26 Aprile 2024

Quando Capolicchio fece innamorare l’Italia

Morto a 78 anni l’attore che interpretò Giorgio ne “Il giardino dei Finzi Contini“. L’incontro decisivo con Strehler e il rapporto con Avati

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Giovanni

Bogani

I capelli biondi, fini. Gli occhi azzurrissimi. Lino Capolicchio, volto efebico e bello del cinema e del teatro italiano, se n’è andato nella notte dei David, a 78 anni. In silenzio. Un David lo aveva vinto nel 1971 per il film che lo consacrò, Il giardino dei Finzi Contini. Il film nel quale interpretava un giovane ebreo, nell’Italia fascista e razzista del 1938. Lo interpretava così bene che Golda Meir, l’allora primo ministro di Israele, al pranzo di gala dopo la “prima“ del film a Gerusalemme gli chiese se fosse davvero ebreo. "No, grazie, non ho questo onore" avrebbe potuto rispondere, come Charlie Chaplin quando gli fu rivolta, ma in tono accusatorio, la stessa osservazione.

Lino Capolicchio era nato a Merano, nel 1943. Nel dopoguerra, si ritrovò – bambino – strappato alla famiglia, imprigionato in un collegio, per volere del padre. Un trauma che non dimenticò. I suoi rapporti con il padre furono sempre difficili. Ma fu difficile anche portare, per tutta la vita, quell’aspetto così poco mediterraneo. Perché Capolicchio, con i suoi occhi limpidi, era mitteleuropeo, raffinato, asburgico. E quell’aspetto, da Tadzio di Morte a Venezia, fu per lui un privilegio e una condanna.

I fratelli Taviani gli dissero: "Lei sembra un attore inglese"; e mille altri proseguirono quel mantra: sembra russo, sembra tedesco… Insomma, per il cinema italiano era un alieno, un corpo estraneo. Non ha mai fatto parte davvero della commedia all’italiana, di quel mondo di eroi del “tiriamo a campare“, di quei volti segnati dall’arte di arrangiarsi di cui siamo maestri indiscussi. Lui, a vent’anni, attraversava già il fuoco e il ghiaccio del teatro del maestro più sublime: Giorgio Strehler.

Non era stata la recitazione il suo primo amore. Era la musica. Da bambino, usciva dalla Messa piangendo, stravolto di emozione per la musica dell’organo. Ventenne, s’innamorò della canzone italiana più intelligente, quella di Paoli, Endrigo, Gaber. Fu amico di Fabrizio De André. Ma ormai il destino stava per chiamarlo. E portava il nome di Strehler. Che lo vide in un teatro di periferia e lo scelse, per recitare recitare Goldoni al Piccolo di Milano. È il 1964.

Gli anni ’60 sono febbrili, di teatro e di incontri. Franco Zeffirelli lo vuole con sé nel film La bisbetica domata, nel 1967. Il suo ruolo sarà minimo: ma Zeffirelli terrà per settimane quel ragazzo sul set. In quegli anni, incontra anche Pier Paolo Pasolini. Il quale gli dice: "Lei ha un viso bellissimo, che esprime la decadenza della grande borghesia del Novecento".

Borghesia che si rispecchia nel suo volto bello, nel film Il giardino dei Finzi Contini. È il 1970. Capolicchio è Giorgio, giovane ebreo innamorato di una splendida Dominique Sanda, appartenente all’alta borghesia ebraica, nell’addensarsi delle nubi nere della Seconda guerra mondiale.

De Sica, che non è un regista tenero, dopo un ciak particolarmente difficile, affronta Capolicchio con la faccia scura. E gli sussurra: "Uagliò! Tu tieni talento". È più di un bacio accademico. Il film vince l’Orso d’oro a Berlino, l’Oscar al miglior film straniero, e vale a Capolicchio il David di Donatello come miglior attore.

Negli anni successivi, incrocia per nove volte il cinema struggente, nostalgico, musicale di Pupi Avati. E nella serie tv Jazz Band, diventa il suo alter ego, nel ruolo di un giovane clarinettista. La madre di Avati dice: "Quasi vi confondo, ma avrei preferito avere come figlio Lino, perché è più bello!" Con Avati gira La casa dalle finestre che ridono, Ultimo minuto, Le strelle nel fosso, Noi tre. E poi, a metà degli anni ’70, quel giorno che per un soffio non interrompe la sua vita. Sta per interpretare Profondo rosso di Dario Argento. È in auto, a notte fonda, torna da uno spettacolo. Piove a dirotto. Uno schianto. L’auto distrutta, lui con diverse fratture, in un lago di sangue. Sembra uscito da un film di Dario Argento. Quel film che non potrà fare.

Pochi anni fa, aveva affidato la storia della sua vita ad un libro, D’amore non si muore. "La mia vita è stata una tumultuosa cavalcava, scollata da tutte le convenzioni. Ho sempre cercato di vivere, non di sopravvivere. Ecco. Posso dire che ho vissuto", diceva parafrasando Pablo Neruda.

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