Mercoledì 1 Maggio 2024

Quando Bianciardi era un "teleguardone"

Gli scritti giornalistici dell’autore de “La vita agra“: dalla rubrica tv ai reportage alla critica del consumismo. Una voce controcorrente

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di Lorenzo Guadagnucci

Quando il Corriere della sera gli offrì un contratto di collaborazione, Luciano Bianciardi rifiutò. E dire che a quei tempi, anni ‘60, come sempre del resto, aveva un gran bisogno di guadagnare, da precario freelance qual era. Ma disse no, per orgoglio e fedeltà a sé stesso. Il Corriere era un’istituzione della borghesia milanese, il giornale del capitalismo italiano e lui, in quel mondo lì, proprio non ci si trovava. Era salito a Milano dalla sua Grosseto per lavorare nella nascente industria culturale e fu uno scontro più che un incontro. Resistette qualche mese alla casa editrice Feltrinelli, poi mollò: né i tempi né i metodi di lavoro facevano per lui.

Bianciardi era e rimase sempre un provinciale e un refrattario e perciò è stato un sagace, ironico e pungente critico della società dei consumi (materiali e culturali), alla quale mai si adattò e dalla quale alla fine fuggì, anche fisicamente, riparando a Rapallo. "Siamo in provincia", scrisse della cittadina ligure, "il turismo internazionale ci passa sopra come l’acqua sul ferro. Ma il fatto è che io sono nato in provincia, per questo mi ci trovo bene. Vado riscoprendo le sensazioni della giovinezza. Anche la noia, d’accordo: ma chi ha detto che la noia è un male? Ogni tanto vedo Ezra Pound, il piu grande poeta vivente. È un bellissimo vecchio. Peccato che non parli più con nessuno. Al sabato arrivano gli amici da Milano. Non ti muovi?≫chiedono. No, ragazzi, non mi muovo".

Bianciardi morì giovane, a 49 anni, fu presto dimenticato e poi riscoperto e oggi se ne parla così tanto da correre il rischio di trasformarlo in una figurina, addomesticando le sue asperità. Lasciata la Feltrinelli, visse di traduzioni, a ritmi quasi da forzato, e di collaborazioni giornalistiche, mai interrotte nell’arco di vent’anni, fra il 1952 e il 1971, quando lasciò questa Terra. Eppure disse no al Corriere, rinunciò ai soldi, al prestigio e alla visibilità di cui avrebbe goduto. Era fatto così e i suoi molti scritti giornalistici, ora raccolti in tre volumi dalla casa editrice ExCogita della figlia Luciana (Tutto sommato, 965 articoli per 65 diverse testate, oltre 2800 pagine) sono lì a testimoniare un talento singolare, un’attitudine narrativa ironica ma non cinica, assai distante dai canoni del giornalismo italiano di ieri e di oggi, sempre vicinissimo al potere, politico o mediatico che sia. Bianciardi no. Lui osservava l’Italia del boom economico con lo sguardo scettico del provinciale e la diffidenza di chi non ama il potere e tanto meno cerca di ingraziarselo.

Scriveva di tutto e quasi per chiunque – quotidiani come il Giorno e l’Avanti e periodici come Abc e Playmen; giornali di provincia come riviste letterarie e sportive – e lo faceva con piglio da scrittore: i suoi erano quasi degli elzeviri, ma senza i paludamenti del giornalismo d’antan. L’attacco di un pezzo per Playmen sull’allunaggio: "Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa luna? Ce lo siamo chiesto un po’ tutti, noialtri innamorati, con le parole del glorioso gobbetto recanatese. Ed eravamo convinti che alla domanda non ci sarebbe stata risposta. Per noi innamorati andava bene cosi. La Luna ci era vicinissima proprio sulla punta del cipresso, dietro casa. Ora invece sappiamo cosa fa la Luna in cielo, perche l’abbiamo vista alla televisione, in diretta dallo spazio. La Luna in cielo non fa assolutamente nulla".

Teneva una pionieristica rubrica di "teleguardone professionista" (autodefinizione sua, ovviamente) chiamata Telebianciardi: esaminava programmi e personaggi tv con acume e leggerezza, ma non rinunciava a una forma di critica storica e sociologica che gli era propria. Così integrava gli entusiastici dati sulla diffusione di radio e tv in un articolo del 1962: "In Italia dunque funzionano tre milioni di televisori e nove milioni di apparecchi radio. (...) Per diffusione della radio siamo al tredicesimo posto fra i Paesi d’Europa, al settimo per la televisione. (...) Sono cifre dichiarate dai dirigenti della Rai (...) Ma non significano niente, anzi sviano, se non le mettiamo a confronto con queste altre cifre: 11 italiani su cento non hanno il gabinetto in casa, 62 non hanno il bagno, 29 non usano il dentifricio, 4 su cento (due milioni!) non hanno mai usato il sapone (...) 93 famiglie italiane su cento non acquistano mai libri, 48 su cento non comprano carta stampata di alcun genere. Undici italiani su cento non sanno né leggere né scrivere".

Bianciardi non aveva lo spessore teorico e politico di un Pasolini (che al Corriere collaborò e furono gli Scritti corsari, una serie di brevi, potenti saggi di critica del presente), ma rileggere i suoi articoli, fra la scoperta di Jannacci ("un personaggio nettissimo, d’una follia sopra le righe, urlata, tutta milanese") e le lodi al maestro Manzi, un reportage da Mosca e un’analisi sull’anticomunismo emotivo dei piccolo borghesi, una scorribanda in auto nel Nord Africa e le risposte ai lettori sul Guerin sportivo, sembra di entrare nel profondo della storia sociale d’Italia del dopoguerra, col rammarico di un discorso che s’interrompe sul più bello nel 1971.

L’ultimo articolo uscì postumo sul Guerino: erano risposte a domande contenute in lettere inventate e firmate coi nomi di Giuseppe Berto, Gino Paoli, Vittorio Adorni e Lando Buzzanca. Uscì il 15 novembre, il giorno dopo la sua morte, e finiva così: "Ciao, Lando, ci vediamo alla prima milanese de Il merlo maschio". Era il film di Pasquale Festa Campanile tratto da un suo racconto, Il complesso di Loth.

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