Mercoledì 24 Aprile 2024

Lo sguardo di Gabin, il seduttore riluttante

Le donne, i grandi registi, i capolavori: un documentario e una rassegna di film ricordano l’uomo e l’artista. Che non voleva fare l’attore

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di Silvio Danese

Non voleva fare l’attore, Jean Gabin. Quando suo padre, fantasista alle Folies-Bergér, lo spedisce alla destinata eredità tra le fanciulle in piume e pennacchi ("l’unica cosa buona di quel lavoro") e poi alle prime particine al cinema, il diciottenne Jean decreta: "Va bene, faccio questo per qualche anno, poi mi ritiro". Diventò una star immortale.

A fine anni ‘50, sovrappeso, malinconico, ma sazio di dosi massicce di matrimoni, flirt e amanti nella vita e sullo schermo, Marlene compresa, annuncia il ritiro dai ruoli del seduttore: "Il mio fisico è cambiato, il tempo di baciare è finito".

Qualche mese dopo Claude Autant-Lara, da un romanzo di Simenon, gli affida la parte in una storia d’amore "la plus etonnante", e forse è poco: La ragazza del peccato (1958). Una bomba: la lolita Brigitte Bardot si offre all’elegante avvocato sessantenne strusciando la scrivania fino all’angolo: si appoggia, scopre gambe, reggicalze e mutandine e sfrontata dice al signore in doppiopetto scuro: "Perché non ne approfitta finché non finisco al fresco?". Come raccontare l’impercettibile movimento d’angolo verso il basso nello sguardo freddo-bollente di Gabin?

Jean Renoir, autore di due capolavori da condividere con Gabin, La grande illusione (1937) e L’angelo del male (1938): "Questo grande attore ottiene il massimo effetto con il minimo dei mezzi". E Jacques Prévert, l’altro eroe, con Marcel Carné e Gabin, del “realismo magico“ francese scolpito nella storia del cinema: "La sua vera voce è lo sguardo".

Iperboli, naturalmente, ma ci prendono. Sornione, anti intellettuale vigile su ogni scelta, riluttante e insieme autoritario, d’eleganza popolare in tuta operaia o con foulard e Borsalino alle ventitré, Gabin fu Gabin sempre, anche suo malgrado, seguendo senza inseguire una carriera di successi e conferme, ora ripercorsa nel documentario di Yves Jeuland Un francese di nome Gabin che accompagna l’ampia rassegna della Cineteca di Milano Jean Gabin - Solo i capolavori (fino al 5 dicembre), il primo doc interamente d’archivio dove troviamo anche l’incredibile (per l’epoca) sequenza senza tagli di una Bardot “integrale“ alla scrivania.

Da ragazzo in testa aveva due obiettivi: l’agricoltore e il macchinista di treni. Come macchinista, è l’indimenticabile alcolista sporco di carbone, ma di olimpica memoria, nel film di Renoir da La bête humaine di Zola. Quanto all’agricoltore, quando Parigi a metà anni ‘60 diventa rivoluzionaria, e stufo degli attacchi della Nouvelle Vague al "cinema di papà", si allontana in Normandia dove già dal ‘52 governava un’immensa tenuta di cavalli e raccolti.

La carriera di Gabin è divisa in due, anzi in tre. Tra la metà e la fine degli anni ‘30 una decina di film impongono sia una fotogenia fuori norma, naso di patata e l’azzurro degli occhi che nel bianco e nero diventa trasparenza perturbante, sia un modello personale di interpretazione nel sonoro, energia contenuta e scoppi, autorevole immobilità e cascata di reazioni (lo imitiva a volte Spencer Tracy): dal Pepé le Moko di Il bandito della casbah (1936) di Duvivier al clandestino di Il porto delle nebbie (1938) di Carné, in coppia eterna con la diciottenne Michèle Morgan, dai film citati di Renoir a Alba tragica (1939), sempre di Carné, ma con Arletty.

Si sorvola in genere sul periodo americano, durante la guerra, che fu invece drammatico: a Hollywood lo fanno biondo col ciuffo e lui detesta recitare in inglese. Ma la vita gli affida una dea: sette anni d’amore con Marlene Dietrich, e un film poco fortunato: Turbine d’amore (1946), appena rientrati a Parigi dove in realtà Gabin non riesce a reinserirsi (grande amarezza per la fine con Marlene).

Finché un nuovo Gabin, invecchiato prematuramente ("Sono partito giovane e sono tornato coi capelli bianchi"), adatto al boss come al commissario, insomma tornito nella saggezza sbrigativa dell’età, diventa un brand: tra Grisbi (1954) di Becker, i tre Maigret, diversi gangster e commedie in coppia con Lino Ventura o i giovani Belmondo e Delon, fino a La chat (1971) con Simon Signoret, risplende morbida la luce di un divo europeo d’antan, "autocrate del set" (Truffaut), cantato da Prévert: "Sobrio come vino rosso semplice come macchia di sangue gaio talvolta come vinello bianco recita ‘come nella vita’ misteriosa e sognata".

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