Venerdì 26 Aprile 2024

La Grande (deludente) Guerra dei letterati

Dalla fascinazione interventista alla disillusione in trincea: la rabbia nei diari di Gadda, l’angoscia di Wittgenstein, le amare liriche di Jahier

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di Lorenzo Guadagnucci

Carlo Emilio Gadda aveva 22 anni quando partecipò – parole sue – "con sincero animo" alle “radiose giornate“ del maggio 1915, quelle che portarono l’Italia all’intervento in guerra. La piazza (e le élite) sconfissero i “neutralisti“, che erano riusciti fin lì a tenere il paese fuori dal conflitto: cominciò anche per noi, con un anno di ritardo, la Grande Guerra, che si sarebbe chiusa tre anni e mezzo dopo, il 4 novembre 1918, con una formale vittoria ma una sostanziale tragedia.

Comunque sia, nella primavera del ’15 molti giovani intellettuali come Gadda diedero un importante contributo al fronte interventista: la guerra, a seconda dei casi, era l’esito dovuto di un impeto nazionalista da non arginare o lo sbocco necessario per un paese “nuovo“ quale era l’Italia sull’onda del Risorgimento, ma era anche – la guerra – un mito in sé, una sfida esistenziale, un cimento da affrontare con slancio virile e il taccuino in mano. Gadda, per esempio, scrisse un diario (Giornale di guerra e di prigionia, Garzanti) che fu pubblicato solo negli anni ’50 ma che costituisce un documento importante per la storiografia del ’900, cui si aggiungono le lettere uscite da Adelphi col titolo La guerra di Gadda.

Diari di guerra altrettanto importanti scrissero intellettuali-soldati come i nostri Giani Stuparich e Piero Jahier, o il filosofo tedesco Ernst Jünger, tutti volontari e testimoni della Grande Guerra. Ma non si capirebbe quel conflitto e lo stato d’animo che si visse alla vigilia, senza considerare il milione di “poesie di guerra“ scritte da giovani e meno giovani tedeschi nel ’14 per spingere il paese verso il conflitto: era la “comunità d’agosto“, una sorta di anteprima del nostro “maggio radioso“, come ricorda Paolo Macry nel suo libro Storie di fuoco appena uscito col Mulino.

La guerra, insomma, aveva un fascino ben superiore all’opzione pacifista, naufragata insieme all’internazionalismo che per un po’ tenne uniti i partiti socialisti europei. Molti letterati, in quel frangente, si accollarono una missione pedagogica verso il popolo ignaro: i volontari, scrisse sulla Voce Fernando Agnoletti, dovevano guidare i soldati che "non sanno chi odiare". Numerosi poeti e intellettuali vissero la guerra in prima persona e conobbero in presa diretta la grande carneficina, "l’inutile strage" per dirla con papa Benedetto XV.

Ognuno reagì alla terribile esperienza a modo suo. Non mancarono le disillusioni. Gadda, per esempio, sviluppò un astio furibondo verso politici e generali, definì Vittorio Emanuele "quello scemo balbuziente d’un re", si riempì di sdegno per l’intero paese e quando finì prigioniero dopo la rotta di Caporetto confessò a sé stesso: "La mia vita morale è finita".

Anche il poeta Piero Jahier, partito con gli alpini a trent’anni lasciando a casa moglie e quattro figli, masticò presto amaro, di fronte alla scoperta del “paese reale“: "Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita. Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno che non sa perché va a a morire". In Italia, in effetti, i volontari, e specialmente gli intellettuali accorsi al fronte, non erano ben visti dai soldati coscritti, e dovettero constatarlo anche quei letterati, come i fratelli Giani e Carlo Stuparich e l’amico Scipio Slataper, che si erano arruolati con un motivo in più: conquistare all’Italia la natia Trieste, fiore all’occhiello dell’Impero asburgico.

Un po’ diversamente andavano le cose fra i nostri nemici. In Germania, fa notare Macry, la patria era fiera dei volontari: si era affermato il “mito del Langermark“, che prendeva il nome dalla provincia delle Fiandre dove alcuni reggimenti di volontari combatterono eroicamente nel novembre del ’14, pur soccombendo di fronte ai reparti professionali inglesi. Non mancavano però, nel campo degli Imperi centrali, le eccezioni.

Fra i tanti ad arruolarsi vi fu il giovane Ludwig Wittgenstein, figlio di un ricchissimo industriale austriaco ma anche brillante allievo a Cambridge di Bertrand Russell, filosofo pacifista di fama internazionale. "La truppa mi odia, perché sono un volontario", scrisse nel 1916. Ludwig era un filosofo in formazione: soffrì, meditò il suicidio, ma continuò a combattere, anche in missioni rischiose. Nel ’18 fu fatto prigioniero dagli italiani e si ritrovò a Cassino. Aveva nelle zaino il manoscritto del Tractatus logico-philosophicus, il suo capolavoro, e un paio di medaglie sul petto. Cominciò per lui come per tanti altri una nuova vita, ma la Grande Guerra, lo si capì subito dopo, era solo il primo atto del secolo europeo delle guerre.

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