Mercoledì 24 Aprile 2024

Il secolo breve di Sarajevo, crocevia d’Europa

Dall’attentato all’arciduca asburgico nel 1914 all’assedio degli anni Novanta: un modello di convivenza finito nel vortice delle guerre

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di Lorenzo Guadagnucci

Quando Eric Hobsbawm coniò la sua definizione di “secolo breve” – titolo di un suo famoso libro uscito nel 1994 –, cominciato nel 1914 con la Grande Guerra e finito col crollo dei regimi comunisti nel 1991, non concentrò l’attenzione sulla città di Sarajevo; oggi, col senno del poi, e allargando lo sguardo a tutti gli anni Novanta, possiamo includere la guerra civile in Jugoslavia fra le grandi tragedie del secolo, che è stato quindi meno breve di quanto stabilito dal grande storico britannico. Ne consegue che la capitale bosniaca è la città che meglio rappresenta la travagliata vicenda europea del secolo scorso.

Tutto cominciò per l’appunto a Sarajevo, la mattina di domenica 28 giugno 1914, quando sul lungofiume Appel, all’altezza del Ponte Latino, un giovane idealista, un po’ socialista, un po’ anarchico, un po’ nazionalista jugoslavo, Gavrilo Princip, nato nel 1894 nel remoto villaggio bosniaco di Grahovo, ai confini fra l’Impero ottomano e la Dalmazia veneziana, riuscì rocambolescamente a uccidere a colpi di pistola l’erede al trono dell’Austria Ungheria, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, e la moglie Sofia. Fu il pretesto che portò di lì a poco alla Grande Guerra, scatenata inizialmente contro la Serbia, reputata responsabile del duplice omicidio, concepito e portato a termine da un gruppo di giovani – il più grande, considerato l’ideatore, Danilo Ilić, aveva 24 anni – riuniti sotto le insegne dell’organizzazione Giovane Bosnia.

Miljenko Jergović, scrittore fra i maggiori dell’area balcanica, nato a Sarajevo nel 1966 e fuggito a Zagabria quando la sua città era cinta d’assedio negli anni ‘90, ha dedicato un libro (L’attentato, Nutrimenti editore) alla congiura del 28 giugno 1914, indagando su Gavrilo Princip e i suoi compagni.

Erano, quei giovani, parte di una temperie storica tumultuosa, con le rivendicazioni nazionaliste e il regicidio o l’eliminazione di ministri e presidenti al centro della scena. Nel 1900 era toccato al re d’Italia Umberto I, colpito a morte dall’anarchico Gaetano Bresci; l’anno dopo al presidente statunitense William McKinley e poi, in rapida e geometrica successione, al ministro imperiale russo Sipjagin, al re jugoslavo Alessandro con la regina Draga, ai primi ministri di Grecia, Bulgaria, Spagna, Russia, Iran, Egitto, al re del Portogallo Carlo I fino ad arrivare al 1913, preludio del regidio di Sarajevo, con tre grandi delitti politici: il presidente del Messico, il re greco, il comandante in capo dell’esercito turco.

"Allora – scrive Miljenko Jergović – i civili sparavano agli imperatori, ai re e ai capi di governo, mentre oggi gli imperatori, i re e i capi di governo sparano sui civili". La storia ha cambiato il suo corso, eppure Sarajevo mantiene una sua centralità. C’è un filo che lega il 28 giugno 1914 ai giorni nostri. Sarajevo, fra il 5 aprile 1992 e il 29 febbraio 1996, visse 1395 interminabili giorni di assedio, sotto il tiro dei cecchini, chiusa al resto del mondo, terrorizzata, affamata e infreddolita, nel disinteresse generale.

La “liberazione”, avvenuta grazie ai bombardamenti della Nato, fu l’atto finale del secolo breve e però l’inizio di un calvario che perdura. Il sogno dell’Europa, gli ideali di pace e democrazia che ne erano il fondamento, proprio a Sarajevo si erano rivelati fragili, quasi evanescenti sotto i colpi dell’artiglieria serbo-bosniaca e nella retorica del nazionalismo che tornava a imperversare nel continente, come alla vigilia dell’attentato del giovane Princip.

Oggi Sarajevo è ancora lì a testimoniare le contraddizioni irrisolte del progetto europeo. È stata una città simbolo della convivenza fra diversi, col suo centro storico fatto di moschee, sinagoghe, chiese cattoliche e ortodosse, ma anche l’innesco di una lunga stagione di odi nazionali e di guerre. L’Europa si specchia in questa città da più di cent’anni e ancora non riesce a decifrare il suo vero volto; non sa ancora dire a sé stessa se qui sia nato o abbia cominciato a morire il suo progetto di convivenza e integrazione. Sarajevo è ancora il crocevia d’Europa.

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